Un ritorno davvero trionfale per Giuseppe Fiorello su Rai Uno con la sua nuova fiction “Gli Orologi del Diavolo”, tratta dalla storia vera di Gianni Franciosi, il primo civile infiltrato nei narcos, un uomo che perde tutto per fare la cosa giusta. Lo hanno premiato gli ascolti e lo ha premiato la critica: l’attore parla a Postenews del suo lavoro e delle lettere che rimangono nel suo cuore.
Giuseppe, ne “Gli Orologi del Diavolo” interpreti Marco Merani: ci tratteggi un suo profilo?
“Marco è un giovane uomo, bravissimo motorista nautico e costruttore di barche. Dei narcotrafficanti, a cui farebbero comodo gommoni che corrano più delle motovedette delle forze dell’ordine, lo contattano. Marco, inizialmente, non sa nulla di loro e li accoglie tra i suoi clienti. Chiede poi a Mario, suo amico poliziotto, come deve comportarsi. La polizia propone a Marco di collaborare per stanare i malviventi. Da qui si dipana la storia terribile di quest’uomo, la cui vita, fino a quel momento tranquilla e semplice, si trasformerà in un incubo senza fine, fino a stravolgerne l’esistenza”.
Questo film fa emergere un lato doloroso: quello dei testimoni di giustizia, che spesso vengono dimenticati. È questo il messaggio che avete voluto lanciare?
“Non direi. Quando interpreto un personaggio, non voglio mai lanciare dei messaggi specifici. In una rappresentazione, ciascuno può dare risalto a quello che preferisce. Io voglio solo raccontare delle storie. In questo caso, descrivo una vita sospesa in una bolla d’aria. Descrivo come ci si dimentichi spesso dei testimoni di giustizia, lasciati sprofondare verso un destino a volte amaro”.
Si dice che ogni film interpretato da un attore sia in grado di arricchirlo professionalmente. Cosa ti ha insegnato “Gli Orologi del Diavolo”?
“Tutte le storie lasciano delle tracce. A me questa esperienza ha fatto capire quanto lo Stato siamo noi. E quanto dobbiamo essere pronti a scendere in campo per servirlo. In fondo, quel Gianni, protagonista della fiction, siamo tutti noi”.
Hai dichiarato recentemente che non pensavi di fare l’attore. Poi un incontro ha cambiato la tua vita professionale. Ce lo racconti?
“Sì, è vero. Volevo solo raccontare storie, avevo una generica idea di fare il narratore. Un incontro con Niccolò Ammaniti mi ha cambiato la vita: fu lui a spingermi a fare l’attore. Devo molto a lui, così come a Marco Risi. Ma a Postenews vorrei fare una confessione, dire una cosa che non ho mai detto a nessuno”.
Prego, è un onore per noi.
“Vorrei dirvi che devo anche molto a me stesso. Alla mia passione, alla mia meticolosità, forse anche al carattere solo apparentemente chiuso e cinico che sembro avere. Se non ci fosse stata questa mia attenzione per il minimo particolare, non avrei fatto così bene questo mestiere”.
Giuseppe, se oggi sei uno degli attori più seguiti, il merito va anche a papà Nicola. Che ti ha cresciuto con libertà e affetto mentre ti cantava le canzoni di Modugno.
“È vero. Papà mi ha sempre lasciato libero di sognare. Se ne è andato troppo presto, quando io ancora vivevo sotto la sua ala protettrice. È stato un trauma per me. Ma quella è stata forse la scintilla per farmi uscire dalla mia timidezza. Ho imparato ad essere il padre di me stesso”.
C’è un pacco o una lettera, spedita o ricevuta, che ricordi con particolare piacere?
“Questa domanda mi emoziona. Torno al ricordo di mio padre. Proprio qui, nel mio cassetto, ho delle lettere che spedivo a mio papà quando facevo il militare a Lecce. Sono del 1988. Queste lettere le conservo tutte. Faccio un appello: torniamo a scrivere e a inviare le lettere, quelle scritte di proprio pugno, quelle fatte di carta e penna. Sarebbe importante riportare in vita certi valori”.