Per Dante, l’Italia fu uno dei pensieri dominanti nel lungo periodo dell’esilio. Quella terra che vagheggiava diversa, luogo dove il “sì suona”. Che andava prendendo con lentezza e a fatica coscienza di una lingua nuova in fase di costruzione e avrebbe facilitato l’unità di un popolo diviso in una miriade di comuni e fazioni litigiose. Un pensiero unitario sollecitato dal suo presente lacerato e dolente, vissuto scrutando il futuro. Un contributo notevole, specifico a questa visione dantesca dell’Italia – resa attuale per i 700 anni dalla sua morte – si trova nelle Epistole che completano la sua immagine artistica e la sua personalità scolpita nella sublime Commedia poi chiamata “divina”e nelle prose in forbito latino o in volgare mutante e creativo. Ma – a differenza di queste celeberrime opere – le Epistole dantesche mancano di un elemento caratteristico in tutte le sue maggiori composizioni. L’amore fulminante per Beatrice che impersona il cuore delle sue teorie sull’amore in generale. Un amore desiderato prima, rimpianto e indimenticato dopo la morte prematura della donna amata, diventata paradigma dell’amore del “dolce stil nuovo”.

Armonia tra i poteri

Le Epistole, infatti, sono testi latini dove – quasi a sorpresa – l’amore sentimentale è assente. Mentre è presente l’ira politica di Dante e l’angustia per la sua condizione di esiliato; la determinazione con la quale ha lottato contro l’ingiusta sentenza di espulsione dalla sua città, Firenze. In questa condizione di girovago per la giustizia ha maturato prospettive future e scenari di grandezza “per la nostra Italia”. Si tratta di un amore politico che sollecita una ricomposta armonia sociale tra potere civile e religioso per rivivere in Italia gli antichi fasti dell’impero. L’Epistolario completa in qualche modo il profilo intellettuale e politico di Dante nella fase della maturità, “nel mezzo del cammin di nostra vita” che per lui coincise con la vita rivoluzionata dall’esperienza dell’esilio e ancora oggi può suggerire qualche riflessione alla politica nazionale. Sono tredici le lettere scritte in latino e indirizzate a vari interlocutori, pensate da Dante destinate alla pubblicazione e perciò curate come opere letterarie. Tutte composte durante l’esilio che vi è presente come sottofondo della vicenda personale o come contesto degli argomenti trattati.

Agli “scelleratissimi” fiorentini

Esistono testimonianze di altre lettere scritte da Dante sempre durante l’esilio, che sono andate perdute. E sulla Lettera XIII, a Cangrande della Scala, gli studiosi disputano tuttora sulla sua autenticità. Le lettere considerate più importanti per il pensiero politico dell’autore sono la VII indirizzata all’imperatore Arrigo VII, la V ai Signori d’Italia e l’XI ai Cardinali italiani perché si battano in conclave per eleggere un papa italiano che da Avignone riporti la sua sede a Roma. Imperitura e imperiosa quanto orgogliosa è anche la VI lettera indirizzata agli “scelleratissimi” fiorentini. Nella XII a un amico fiorentino emerge il temperamento combattivo di Dante che mai accetterà di ritornare nella sua città con amnistie senza riconoscimento della sua innocenza.

Toni profetici

L’Epistolario lascia intravedere la delusione di Dante verso i suoi contemporanei e la loro freddezza per il suo progetto civile, religioso politico. Come si confermerà pure nella Commedia i toni del poeta suonano profetici e sembrano adombrare un dialogo aperto a future generazioni che Dante immagina sensibili a operare per una nuova umanità. Rispetto alle politiche litigiose, settarie del suo tempo, egli gradualmente si estranea fino a decidere di “Far parte per se stesso”. Il poeta guarda con il pensiero al dopo della sua generazione, quella di coloro – scrive nel Paradiso – “che questo tempo chiameranno antico”. Noi siamo nel futuro immaginato e sperato da Dante. E tanto più lo siamo nella misura in cui costruiamo un mondo più giusto e solidale che lui non riuscì a vedere, ma soltanto – e l’Epistolario lo certifica – ad auspicare e sperare.