La sua aspirazione era dipingere “la notte senza il nero”. Come dire esprimere con il pennello l’indicibile, dietro la spinta irreprimibile d’infinito superare il limite umano. Ai giorni nostri, esigenti e socialmente più incattiviti dei suoi, Vincent Van Gogh – non bello, sgradevole, bipolare – con difficoltà sarebbe stato considerato Van Gogh il mirabile. L’attuale classe dominante del pianeta valuta la ricchezza sopra ogni cosa; a milioni di dollari si contende i suoi quadri, ma non è per nulla interessata a migliorare la condizione marginale di poveri, deboli, fragili della società, la categoria di esclusi cui Van Gogh apparteneva per consonanza di spirito. Affascina quel modo diverso di guardare persone anonime e natura sprigionato dai suoi quadri; non ci s’interroga però abbastanza su quale ne sia la sorgente ispiratrice. Soltanto con i dipinti e senza le sue lettere – 820 in circa vent’anni – sarebbe meno agevole capire Van Gogh. E invece per coglierne l’umanità intensa, è bene accostare lettere e dipinti. La corrispondenza, infatti, narra la sua fatica di essere uomo, il dover vivere in società regolata dalla competizione. E squarci di estetica in anticipo sui tempi.

La luce e la natura

“Afflitto ma sempre lieto”, scrive di sé Vincent Van Gogh al fratello Theo, la persona che più lo ha compreso nella vita e nell’arte. Un ritratto in apparenza contraddittorio, indice della realtà cangiante della natura e della vita che tiene l’anima in tensione. Penetrare nel mistero oltre una certa misura è interdetto perfino a umani estremamente curiosi – come Vincent – di rimuovere l’ultimo velo dell’apparenza. I geni non attingono l’intimo segreto della realtà più dell’uomo qualunque: nessuno ha la chiave ultima della conoscenza dell’essere che vediamo come in uno specchio. Ci sono sfumature che un pittore geniale come Van Gogh traduce mescolando sulla sua tavolozza contrasti dei colori attinti nel contemplare la luce, la natura e la Bibbia. Natura e Bibbia lo hanno esaltato e inquietato. Con una produzione febbrile che, in certi momenti rasentava la follia, ha inventato armonie ammalianti che non cessano di incantare.

Il senso del vivere

Storici e critici si affannano a interpretare la sua esistenza giudicata impari alla sua genialità. Epilessia, demenza, porfiria acuta intermittente, disturbo bipolare, sindrome di Ménière, glaucoma: su Van Gogh sono stati sollevati dibattiti ed elaborati studi, patografie e diagnosi di ogni tipo con lo scopo di imbarcarlo nella “nave dei pazzi” degli artisti “maledetti”. Ma sono le sue lettere, tante per una vita terminata suicida a 37 anni, che squadernano il suo animo rivelato nella sua pittura. All’arte pittorica che – da brutto anatroccolo disadattato nella società – lo aveva trasformato nel cigno capace di somma espressività, era approdato da autodidatta nel decennio finale della vita. Un tempo concentrato di speranza, aspirazioni, disperazione. E realizzazioni incredibili per qualità e quantità: oltre 860 dipinti e mille disegni. Diversi tra loro, ma tutti piccoli tasselli espressione dell’inarrivabile mistero, crogiolati nell’inconscio, perfezionati nel dialogo interiore dell’artista sul senso del vivere e del morire umano. “Ora – scriveva Vincent alla sorella due anni prima di morire rivelando un sogno mai sopito – voglio a tutti i costi dipingere un cielo stellato. Ho spesso l’impressione che più colorata del giorno è la notte, ricca dei più intensi violetti, blu e verdi. Se osservi bene, vedrai che alcune stelle hanno sfumature di limone, altre hanno accenni di rosa, verde e azzurro nontiscordardimé. E, per fartela breve, è chiaro che per dipingere un cielo stellato non basta affatto disseminare puntini bianchi su un blu-nero”. Vincent – così firmava i suoi quadri – anche nelle lettere feriali resta un artista poeta. Cerca vie di fuga per liberare il quotidiano. Oggi sarebbe vissuto contromano, fuori dal coro che monetizza l’arte senza capirne il grido per una umanità più accogliente e fraterna.