di Salvatore Tropea
“Mettetelo su un cavallo e avrete un re” scrisse di lui Enzo Biagi. E un re che si rispetti merita un francobollo anche se le lettere col quale saranno affrancate circoleranno in un mondo che non è più quello nel quale è vissuto Gianni Agnelli. Perché l’Avvocato è stato un uomo del Novecento benché i suoi 81 anni si siano conclusi nella notte del 23 gennaio 2003 quando era cominciato il primo secolo del nuovo millennio al quale lui ha fatto in tempo ad accorgersi di non appartenere. Un riconoscimento per l’anniversario della sua nascita? Ne ha titolo e non soltanto perché per tutta la seconda metà del Secolo Breve è stato l’italiano più famoso nel mondo ma per le tante connotazioni che lo hanno reso tale, dalla sua Torino al cuore di Manhattan.
Tra mito e realtà
Gianni Agnelli è stato il terzo presidente della Fiat, dopo il nonno fondatore e il ventennale reggente, Vittorio Valletta. Tra alti e bassi ha regnato – a governare sono stati demandati altri, da Cesare Romiti a Gian Luigi Gabetti – sull’impero di famiglia nel periodo del suo massimo splendore. Un trentennio in cui ha dominato la scena imprenditoriale italiana e internazionale, diventando, come scrisse il suo amico Henry Kissinger “un’icona nazionale, la personalità italiana più potente e autorevole della sua epoca, uno dei rari esempi di fusione tra mito e realtà”. La sua non fu certo una vita comune sia nel panorama imprenditoriale nel quale si è imposto per il suo prestigio e autorevolezza sia in quello mondano nel quale a privilegiarlo è stato un fascino che lo ha reso unico, eccezionale.
Lezioni di vita
Secondo di sette figli è stato, a giudizio della sorella Maria Sole, un punto di riferimento per la famiglia, in questo ponendosi con naturalezza nel solco patriarcale nel quale lo aveva indirizzato il nonno sin da quando, come li ritrae una celebre fotografia, sulle nevi di Sestriere, ancora ragazzo cominciò a prendere lezioni dal capostipite. Lezioni di comando e di vita. Una vita che comprende anche una jeunesse dorée sulla Costa Azzurra, che gli lasciò in ricordo un incidente d’auto e una gamba offesa e sulle nevi di casa che alternava a quelli di Saint Moritz dove il suo arrivo, qualcuno lo ricorda ancora, creava un’atmosfera inconfondibile. Molte le donne sulle due coste dell’Atlantico, quelle che ha conquistato e qualcuna che lo ha conquistato. Una sola, donna Marella Caracciolo di Castagne, la moglie di sempre.
L’era del cambiamento
Quando nel 1966 annunciò a Valletta che per la Fiat era giunto il momento di innovarsi ridisegnando il sistema aziendale, alla domanda dell’anziano presidente su chi avrebbe guidato il cambiamento, rispose: “Naturalmente io”. Da quel momento Gianni Agnelli finì di essere il nipote predestinato e diventò il presidente che avrebbe accompagnato il gruppo torinese lungo una strada che lo porterà al punto più alto del suo sviluppo attraverso acquisizioni e diversificazioni, dall’Alfa Romeo alla Toro Assicurazioni a molto altro. La sua grande aspirazione era quella di una Fiat internazionale e per questo guardò con attenzione alla Ford ma finì per concludere un’alleanza di breve durata con la Gm. In tutto questo passando per la crisi finanziaria che lo costrinse a bussare alle porte di Gheddafi mentre la Fiat si apprestava a diventare tristemente il bersaglio privilegiato del terrorismo.
Affari di famiglia
Senza aver fatto mai la scelta di un partito politico, salvo una simpatia per il Pri di Ugo La Malfa, Agnelli si distinse per un dichiarato rispetto verso le istituzioni e un attaccamento al capitalismo di famiglia. “Non riesco a immaginare un sistema industriale senza che ci sia dietro una famiglia” dichiarò in un’intervista a Repubblica. Con questo convincimento guidò la Fiat, anche nei momenti più duri dello scontro con i sindacati come quello culminato con la marcia dei quarantamila dell’autunno 1980. Tra i sindacalisti ebbe grande rispetto per Luciano Lama col quale si confrontò sempre lealmente.
Cala il sipario
Quando il lutto visitò a più riprese la sua casa era già un “grande vecchio” che cominciava a non avere più tanta fiducia nel futuro. Il suicidio dell’unico figlio maschio, Edoardo, e la morte prematura del nipote Giovannino, figlio del fratello Umberto da lui indicato come delfino alla guida della Fiat, furono il segnale del declino di un grande personaggio che paradossalmente coincise con quello della sua azienda. Il sindaco quarantennale di Villar Perosa, piccolo centro piemontese da cui era partito il fondatore, il senatore a vita della Repubblica, il proprietario della Juventus e amico di Platini, scavalcò il millennio secondo un copione che sicuramente non aveva messo in conto. Forse lo aveva solo avvistato negli ultimi mesi della malattia, inchiodato a una poltrona, comune mortale. “Non riesco a immaginare una Fiat senza Torino e una Torino senza Fiat” aveva dichiarato più volte quando per la Fiat s’era posto il problema di un accordo che era anche garanzia di sopravvivenza e lui era tornato quasi con affetto nella sua città al riparo delle luci di una ribalta sulla quale aveva recitato da primo attore. Non è vissuto abbastanza per vedere l’era Marchionne, la conquista della Chrysler, e per ultimo l’alleanza con i francesi di PSA. Forse è per questo che sarà ricordato tra i grandi del Novecento.