Filosofo e maestro di pensiero, accademico dei Lincei, che dal 1976 al 2009 ha ricoperto la cattedra di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano, dove è stato anche preside di Facoltà, Carlo Sini ha fondato e diretto numerose riviste filosofiche. È autore di oltre quaranta libri e dal 2015 è presidente di Mechrì, scuola di filosofia e cultura. A questa fine mente dei giorni nostri abbiamo chiesto le sue impressioni sul momento che stiamo vivendo, proiettandoci verso l’uscita – speriamo veloce – dall’emergenza, anche grazie alla partecipazione di Poste Italiane alla campagna vaccinale.
Professore, a poco più di un anno dall’inizio della pandemia, che cosa abbiamo imparato e che cosa non abbiamo imparato?
“Moltissime cose non le abbiamo imparate ed era però irrealistico ritenere che potessimo impararle in fretta. Di fronte a situazioni così esplosivamente nuove, impreparazione ed errori sono inevitabili. Anzitutto non siamo riusciti a convincere le persone a mettere in atto davvero le giuste strategie per evitare il contagio. D’altro canto, le indicazioni delle autorità sono state elusive, contraddittorie, soprattutto prive di reale applicazione e di pratica efficacia: di fatto, al terzo picco, molti di questi difetti e di questi evidenti errori sono ancora palesi. L’alternanza tra “tutti fuori” e “tutti dentro”, fatte certe eccezioni, peraltro complicate e confuse e ben difficili da tenere davvero sotto controllo, ingenera confusione e favorisce la superficialità e la disobbedienza. Che cosa invece abbiamo imparato: sono certo che nei particolari lo scopriremo solo alla lunga; in generale che questo modello di sviluppo non è compatibile con la nostra vita sul pianeta. Avremmo già dovuto saperlo; speriamo che ora diventino tutti davvero consapevoli della cosa, davanti all’esempio terribilmente tragico e incontestabile della pandemia”.
L’incertezza e la paura toccano diversi ambiti, da quello sanitario a quello economico. Come sta cambiando la nostra società? Che conseguenze prevede, a fine pandemia, sull’animo del Paese?
“Come sovente accade, le grandi sventure storico-sociali generano distruzioni gravissime, ma possono essere, e anche sono, occasione di profondo rinnovamento. Il vecchio tran-tran viene meno, con la sua inerzia e un cumulo di inefficienze e di ingiustizie. Bisogna fare di necessità virtù e la più grande delle doti umane, l’inventiva, viene potentemente rinforzata e favorita. Non a caso nel corso di terribili conflitti, negazione evidente del progresso civile, si verificarono spesso scoperte e invenzioni straordinarie. Sarebbe bello imparare a incrementare le seconde senza la presenza dei primi”.
Allo stesso tempo la pandemia ha accelerato alcuni processi: lo smart working, le riunioni online e la didattica a distanza hanno bruciato le tappe. È sano che questi cambiamenti siano stati innescati da un trauma collettivo o sarebbe stato auspicabile uno “scorrimento” più lento? Per le scuole, le università e il mondo del lavoro quale sarà il modello sostenibile post-pandemia?
“Poter procedere a piccoli passi sarebbe l’ideale, ma le cose vanno per lo più in altro modo: ci si mette davvero in cammino quando stare seduti non è più possibile. Così si scoprono nuovi orizzonti e nuovi sensi del fare. Le possibilità di ciò che si può svolgere da remoto erano già tutte accessibili, ma solo ora cominciamo a scoprirne i problemi e i frutti. Per esempio, per quanto concerne l’istruzione, stiamo imparando a distinguere lucidamente ciò che si può fare non in presenza, una possibilità certamente grandiosa, e ciò che esige la presenza vivente. In generale, che il primo modello può essere efficiente per l’istruzione e l’informazione, ma è del tutto deficitario per la reale formazione professionale e umana”.
La pandemia ha innescato il bisogno di maggiore condivisione tra le persone. Anche nel tempo libero, a causa della necessità di mantenere la distanza interpersonale, molte relazioni umane sono diventate immateriali, online, digitali. Che influenza avrà questa situazione sugli adulti di domani?
“Che cosa successe dopo la tremenda esperienza della Spagnola a coloro, soprattutto ai giovani, che la vissero in prima persona? Credo che non esista una plausibile risposta. Lo stesso dopo la peste di Firenze o di Milano. Gli esseri umani dimenticano e passano oltre, ignorando le cause reali delle loro trasformazioni; preferibilmente parlano d’altro: l’arte, la politica, l’economia, la moda”.
Le persone al centro, intese sia come i dipendenti sia come i clienti, è un concetto che Poste Italiane aveva inserito nella propria strategia già prima che il virus arrivasse in Italia. Che cosa significa oggi per una grande organizzazione, con l’emergenza ancora in corso, mettere le persone al centro?
“Mettere le persone al centro è un proposito di altissimo profilo etico, che nel contempo rischia sempre di scadere nella pura retorica delle buone intenzioni. La vera questione consiste, a mio avviso, nella reale quantità e modalità di potere che si è disposti a riconoscere e a delegare, appunto, alle “persone”, ascoltate per esempio nei loro reali bisogni. A ciò si aggiunga l’esigenza di accrescere le competenze di tutti. Ecco il problema delle nostre democrazie, che se non sono fondate sulla educazione collettiva, degenerano in aborti. Ci sono, disse Freud, tre attività impossibili: la politica, l’educazione e naturalmente la psicoanalisi. Insomma: è importante dichiarare ciò che è giusto; poi si fa quel che si può”.
“Decisioni accentrate, esecuzione decentrata” è il mantra del nuovo commissario all’emergenza, il Generale Figliuolo, nella gestione della campagna vaccinale, che vede anche Poste impegnata sul fronte della distribuzione e delle prenotazioni. Cosa pensa di questa logica e in quali situazioni la ritiene applicabile?
“I criteri, la logica del contemporaneo accentramento e decentramento sono condivisibili, ogni volta che è necessaria l’indicazione di una finalità comune accompagnata da una esecuzione localmente efficiente. La complessità della cosa esige certo grande esperienza da parte del responsabile in capo e poi adeguate competenze delle maestranze in loco. Prima ancora però si esige una reale e concreta condivisione della finalità comune e dei suoi modi applicativi, ovvero l’impegno a remare davvero tutti insieme nella stessa direzione, e così torniamo alla politica”.