Per ricordare le sue prime corrispondenze, Valerio Massimo Manfredi, celebre scrittore di romanzi storici, 15 milioni di copie vendute a livello internazionale, e docente a Venezia, alla Loyola University of Chicago e all’Ecole Pratique des Hautes Etudes della Sorbona di Parigi, deve tornare al tempo dell’infanzia. Suo padre, un semplice coltivatore diretto proprietario di due ettari di terreno molto lungimirante, che probabilmente aveva percepito l’innato talento del figlio, istintivamente volle dargli una chance.
I ricordi del collegio
“Mi hanno messo in un collegio sull’Appenino” racconta, vicino Porretta Terme. “Pensi un ragazzino di dieci anni che vede i genitori andarsene via, uno strappo brutto” lo chiama. In quell’anno di permanenza, dove si sente abbandonato e solo, scrive lettere appassionate al padre e alla madre, racconta le sue attività ma soprattutto gli stati d’animo. Dopo cambia collegio, va al San Luigi di Bologna. “C’era una biblioteca di 2.000 volumi, lì ho cominciato a leggere molto, leggevo libri d’avventura, ricordo come ieri quando cominciai David Copperfield, il romanzo di Charles Dickens, una cosa fantastica, non smettevo mai”. Anche da quel collegio redigeva moltissime lettere e i genitori, soprattutto la madre, rispondevano.
Leggevamo Tex
Suo padre, un uomo di famiglia modesta ma di visoni aperte e moderne per l’epoca, quando il giovane Valerio frequentava i primi anni del liceo partiva con tutta la famiglia verso il mare, “andavamo con una macchina presa a noleggio con il conducente, pensi”, lì sulle spiagge romagnole si creò un gruppo di amici, che venivano da Modena e da Bologna, ma soprattutto da Milano, e in attesa di rivedersi l’estate successiva durante l’inverno si scrivevano.
“Eravamo ragazzacci”
Franco Manzo, così si chiamava uno di quei ragazzi, “scriveva lettere con una tale arguzia innata, ironica, piena di frasi dialettali, che mi incantava” confessa, “quando sono diventato uno scrittore, girando l’Italia per conferenze e presentazioni dei miei libri li ho ritrovati tutti, si avvicinavano e mi chiedevano se mi ricordassi o meno di loro. Certo che li ricordavo!” dice. Avevano tutti un soprannome, come Frankie Balland, “uno che ha continuato a scrivermi anche dopo”, o Steve Lanisky, “li inventavamo, eravamo ragazzacci, leggevamo i fumetti americani, Tex per esempio”.
La stima dei Presidenti e di Castro
L’America fu anche il luogo dove conobbe nel 1973 quella che sarebbe poi diventata sua moglie, la traduttrice inglese Christine Feddersen, “il telefono lo usavo pochissimo, costava troppo” mi racconta, “quindi il nostro fu un fidanzamento epistolare, ci siamo scritti all’inizio lunghissime lettere d’amore. Non ero ancora un narratore, però mi piaceva raccontare la mia vita, dei sentimenti che provavo per lei e dei viaggi che progettavo, ho scritto davvero un sacco di lettere in quel periodo», dice soddisfatto.
In uniforme
Ma Valerio Massimo Manfredi ne ha ricevute anche molte di apprezzamento dai lettori, come quelle del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, “gli mandavo i miei romanzi, sapevo che era appassionato della classicità”, dice, anche da Mattarella, e poi dal leader cubano Fidel Castro, “lui mi scriveva tramite l’Ambasciata a Roma”, era un mio lettore, “ricordo che quando uscì ‘Il romanzo di Alessandro’ (Mondadori) – lui era un fan di Alessandro Magno – suo figlio glielo regalò per il compleanno mentre mi trovavo a Cuba. Arrivò con la scorta in uniforme, aveva in mano i tre volumi, e nel chiedermi di firmarli chiese a bruciapelo quando c’era di storico e quanto di finzione ’. Manfredi non si scompose, lo guardò con simpatia, poi gli rispose: “Tutto quello che è storico c’è, il resto è mio”.