L’economista De Romanis: “Investire in ricerca e formazione per una crescita responsabile”
Veronica De Romanis

Veronica De Romanis, lei ha definito il Recovery un treno che passa una sola volta: l’Italia è davvero all’alba di una rinascita?

“Invito tutti a leggere le poche pagine di introduzione del Piano di Ripresa e Resilienza firmate da Mario Draghi. Contengono una descrizione impietosa degli ultimi 20 anni del Paese: un Paese fermo, con produttività stagnante, con il debito tra i più alti d’Europa dopo la Grecia, forte disoccupazione soprattutto tra giovani e donne e diseguaglianze crescenti. È importante, infatti, ricordare gli ultimi 20 anni: ecco perché dico che il Recovery è come un treno che passa in questo momento. Ci sono oltre 200 miliardi di euro ai quali il Governo ha aggiunto altri 30 miliardi più un fondo di 26 per la Tav. Non possiamo fallire, perché dobbiamo sanare gli ultimi 20 anni. Altrimenti il rischio, come ha sottolineato Draghi stesso, è di essere condannati al declino”.

Che cosa può significare la nostra ripartenza?

“La Ue ci assegna l’ammontare maggiore di finanziamenti e c’è un motivo preciso: siamo il Paese con la maggiore vulnerabilità. Se riparte l’Italia, riparte l’intera Unione, in questo senso siamo un osservato speciale. Il nostro successo sarà quello dello strumento del Recovery. È vero che è uno strumento una tantum, ma in caso di esiti positivi sarebbe bene trasformarlo in qualcosa di permanente, da aggiungere nella cassetta degli attrezzi: il debito europeo per finanziare investimenti che servono all’intera Unione”.

Cosa serve per ripartire oltre agli investimenti?

“Il Piano deve contenere investimenti, ma è fondamentale che siano accompagnati da riforme. Il rischio, senza queste ultime, è che l’impatto sia temporaneo. Le riforme cambiano infatti il contesto economico dove si va a investire, rendendolo strutturale e duraturo. Tra i grandi, siamo l’unico Paese che utilizzerà tutti i finanziamenti che arrivano dal PNRR, sia la parte dei sussidi sia la parte dei prestiti. Non lo faranno ad esempio Germania, Francia e soprattutto Spagna: prendere prestiti dall’UE significa ovviamente aumentare lo stock di debito. Già oggi l’Italia ha un debito che si chiude intorno al 160 per cento, con i prestiti raggiungeremo percentuali mai raggiunte fino a oggi. Ecco perché è fondamentale usare bene gli investimenti, per non ritrovarci con la stessa crescita di ora, una volta finito l’impatto dell’investimento. È il concetto del debito buono di cui ha più volte parlato Draghi”.

C’è un aspetto dell’Italia che va “curato” per primo?

“No, si tratta di un piano integrato, quindi bisogna agire su ogni aspetto con un metodo nuovo. Metterei come parole d’ordine la solidarietà, in un piano che deve far ripartire una crescita inclusiva e sostenibile. Poi c’è un aspetto di responsabilità che coinvolge ognuno, dalla politica alle aziende fino ai cittadini. Va aggiunto anche il gusto del futuro, un’espressione usata da Draghi: una visione lunga, che è mancata negli ultimi venti anni, all’interno della quale andrà portato avanti il Piano. In primis dunque le riforme, partendo da Pubblica Amministrazione, Giustizia e Concorrenza. L’impatto stimato a lungo termine è di un incremento del PIL di circa 3 punti e mezzo, che si somma all’impatto degli investimenti previsto poco sotto i 4 punti percentuali. Se prendiamo questo treno possiamo riprendere a crescere in maniera sostenuta e chiudere il divario con gli altri Paesi UE”.

Cosa devono fare le grandi aziende italiane per agganciare la ripresa a e aiutare il Paese?

“Penso ci siano soprattutto due cose da fare se si vuole contribuire: investire in ricerca, perché mai come ora abbiamo capito quanto è sbagliato non farlo, e investire in formazione. Ci troviamo di fonte a nuove competenze, ma anche alla necessità di una formazione continua, che non tutte le aziende forniscono allo stesso modo ai loro dipendenti. Dobbiamo tenere le persone nel mercato del lavoro, perché abbiamo un basso tasso di occupazione. Non a caso la formazione è uno dei pilastri del PNRR e della riforma della Pubblica Amministrazione”.

Poste Italiane si è messa subito al servizio del Governo, in particolare nella campagna vaccinale, utilizzando la propria infrastruttura IT. Può davvero un operatore fisico diventare strategico per la transizione digitale del Paese?

“Direi certamente di sì. Il caso della Lombardia è un caso emblematico di successo, dall’ingresso di Poste in poi. La Lombardia ha preso a correre, al pari delle regioni che hanno iniziato con il piede giusto, come ad esempio il Lazio. Durante la pandemia Poste è stata di grandissimo aiuto con le consegne dei pacchi e-commerce, risolvendo situazioni anche problematiche, se pensiamo a chi non poteva uscire, sia per il lockdown sia per le quarantene”.