Roma, 11 ott – L’Unione monetaria “può durare e prosperare: sono ottimista sul futuro dell’Europa”, che è riuscita a superare i tanti ostacoli e critiche che ha trovato sul suo percorso. A poche settimane dalla conclusione del suo mandato il presidente della Bce, Mario Draghi, ha lanciato con enfasi un messaggio di fiducia sulla tenuta dell’euro, rivendicando con forza il ruolo che la linea tenuta dall’istituzione ha avuto nel superare i recenti anni di difficoltà.
Un discorso più politico, incentrato sulle caratteristiche che devono avere i policy maker, piuttosto che economico e di politica monetaria. E che di fatto demolisce le tesi di chi continua a mettere nel mirino la valuta unica. “Penso che col tempo essere parte dell’Ue e dell’Unione monetaria sia diventato normale per gran parte dei cittadini. L’euro è più popolare che mai – ha detto Draghi – il sostegno all’Ue tocca i valori più alti registrati dall’inizio della crisi”.
L’Unione europea, l’euro e l’attività della Bce hanno “incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche. Hanno dimostrato nondimeno il loro valore”. Tanto che adesso “sono coloro che dubitavano a essere messi in discussione”, ha detto Draghi. Invece “nei dibattiti sul futuro dell’Europa si discute sempre meno” se l’esistenza della valuta condivisa abbia senso “e assai di più sulla via migliore per avanzare. Su queste basi – ha detto il presidente della Bce – la nostra Unione può durare e prosperare”.
Questo tuttavia richiede anche un atteggiamento proattivo da parte dei cittadini, come sembra essersi del resto evidenziato nelle ultime elezioni europee. “È essenziale per lo sviluppo di un’unione monetaria che i suoi cittadini credano nell’unione e la assumano comunque, anche criticamente, come riferimento piuttosto che considerare tutti i problemi guardando all’orizzonte del loro punto di vista particolare”. Peraltro “i parlamentari eletti sono risultati in maggioranza a favore dell’Europa”.
Ma oltre ai messaggi di fiducia, l’intervento è stato anche un lungo richiamo alla serietà e ai valori di riferimento – conoscenza, coraggio e umiltà – che devono far parte del bagaglio culturale dei policy maker. Anche perché “oggi viviamo in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali; aumenta invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti, rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco”.
Ma “rispecchiare semplicemente quelli che si reputa essere gli umori della pubblica opinione non serve l’interesse pubblico. La lezione della storia è invece che le decisioni destinate ad avere un impatto duraturo e positivo sono basate su un lavoro di ricerca ben condotto, su fatti accuratamente accertati – ha detto Draghi – e sull’esperienza accumulata”.
Draghi si è anche “tolto qualche sassolino” riguardo a coloro che in questi anni hanno ostacolato le misure che la Bce ha presso in risposta alla crisi. “Anche il non agire rappresenta una decisione. Quando l’inazione compromette il mandato affidato al policy maker dai legislatori, decidere di non agire significa fallire”.
“In molti – ha detto – casi i policy maker devono agire consapevoli che le conseguenze delle loro decisioni sono incerte, ma convinti che l’inazione porterebbe a conseguenze peggiori e al tradimento del loro mandato”, ha proseguito. “La costituzione del Meccanismo europeo di stabilità (Esm), il varo della vigilanza bancaria europea, la creazione del Fondo di risoluzione unico sono stati tutti ostacolati adducendo problemi di azzardo morale che sarebbero discesi dalla riallocazione a livello europeo di alcune responsabilità nazionali. In retrospettiva, ai governi dell’area dell’euro non è mancato il coraggio; hanno saputo compiere i passi giusti nei momenti cruciali. L’unione monetaria – ha rivendicato Draghi – è ora più forte e gran parte delle paventate complicazioni si sono rivelate infondate”.
E le misure anticrisi messe in campo dalla Bce, tra tassi di interesse negativi e programmi di acquisti di titoli di Stato “hanno avuto un impatto sostanziale, contribuendo per 2,6 punti percentuali alla crescita del Pil nell’area dell’euro fra il 2015 e il 2018 e per 1,3 punti percentuali all’inflazione. Almeno un quinto dell’impatto complessivo sulla crescita nell’anno di picco, il 2017, è attribuibile ai tassi negativi, mentre gli acquisti di titoli – ha aggiunto – contribuiscono per la maggior parte della quota restante”.