Direttore della Stampa, poi per due volte alla guida del Corriere della Sera, di cui è editorialista, Paolo Mieli è uno storico prestato al giornalismo. Allievo di Renzo De Felice e Rosario Romeo, ha scritto saggi storiografici di grande successo. L’ultimo – pubblicato da Rizzoli – si intitola “Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della Storia”. Con Mieli abbiamo parlato di coronavirus, guerra, comunicazione. E del ruolo che in questi contesti hanno le Poste.
Si è paragonata spesso la pandemia di coronavirus a una guerra. Le sembra un’idea appropriata o è più figlia dell’emotività di generazioni che la guerra non l’hanno vissuta e si scoprono tutto d’un tratto molto più vulnerabili di quanto pensassero?
“Penso che il paragone con la guerra sia improprio e questo per almeno due motivi. Il primo è che in guerra il nemico lo conosci e quasi sempre lo vedi. In questo caso il nemico, il Covid-19, è invisibile. Una seconda differenza è che le guerre hanno un giorno in cui cominciano e un altro in cui finiscono. Nel caso dell’epidemia non è così, non si potrà vincere in tempi brevi. Ci vorranno probabilmente non mesi ma anni e non è detto che la vittoria, quando ci sarà, potrà essere definitiva”.
Cosa glielo fa pensare?
“È accaduto così con tutti i virus precedenti: Sars, Ebola, Aids. Nessuno di essi è stato sconfitto una volta per tutte. Nonostante i vaccini. A differenza delle guerre, la diffusione dei virus non ha un inizio e non ha una fine. La storia delle epidemie – dalla peste di Atene del V secolo avanti Cristo fino alla spagnola di cento anni fa – ci dice che esse hanno sempre lo stesso decorso: a una fase iniziale acuta segue un momento di sospensione in cui sembra che tutto sia finito, quindi c’è una terza fase in cui il virus torna a diffondersi anche se in modo meno violento. Per decidere il da farsi aspetterei che le bocce siano ferme. Vorrei capire quale sarà il nuovo scenario. In questo momento servono reazioni composte e ordinate”.
Il ruolo del postino è da sempre in prima linea. Guerre, alluvioni, terremoti ed epidemie, come quella del coronavirus che stiamo vivendo. è in questi momenti che si riscoprono alcune professioni che, in tempi normali, si etichettano troppo facilmente come ordinarie?
“Nella loro dimensione moderna le Poste hanno un ruolo fondamentale: danno una garanzia neutra e organizzata sulla trasmissione dei messaggi. è un ruolo “istituzionale” e dunque fondamentale soprattutto in un momento di crisi come questo, con il rischio che prevalga il caos informativo indotto da internet. Se devi comunicare qualcosa di importante, il “timbro postale” significa che il tuo messaggio è affidabile e definitivo. Qualcosa che voglio che resti deve passare attraverso l’istituzione postale. Il timbro ovviamente è una metafora: sta a significare che un ente terzo certifica la regolarità della comunicazione. è una funzione notarile, una funzione di garanzia, della massima importanza. Questa certificazione di un ente terzo rimarrà per sempre, le Poste sono come dei notai delle emozioni”.
Sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale le Poste hanno giocato un ruolo importante. Lei, nei suoi studi, se ne è occupato?
“In tempi di guerra le lettere e i diari hanno un ruolo cruciale e gli storici dei due grandi conflitti del Novecento lo hanno messo bene in risalto. Tutti i libri che si occupano in particolare della Prima Guerra Mondiale hanno almeno un paragrafo o un capitolo dedicato alle lettere. Spesso lette o scritte per interposta persona – da un commilitone, un cappellano, un superiore – le lettere ricevute al fronte erano un modo per restare in contatto con i propri cari e le proprie radici. Erano come l’ossigeno. Per le lettere che non arrivavano ci furono scioperi e proteste più forti che per il pane. Sono state scritte milioni di lettere durante la guerra: prese una per una, rappresentano una straordinaria testimonianza di quanto il servizio postale possa servire a sentirsi vivi. Credo che in molti casi questo accada anche in tempo di pace”.