Fabrizio Pregliasco

Il professor Fabrizio Pregliasco, virologo all’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi, è un volto noto agli italiani. Da un anno ormai accompagna ai suoi impegni professionali una presenza assidua sui media che lo interpellano per avere informazioni corrette sul Covid-19, sul modo di prevenirlo e ora di sconfiggerlo. Pregliasco è convinto che una buona comunicazione sia un’alleata preziosa sia della scienza che dei cittadini. La gente lo apprezza e non solo per i suoi toni pacati: un’indagine di Reputation Science, società specializzata nell’analisi della reputazione, ha analizzato le dichiarazioni di virologi, medici ed esperti degli ultimi dieci mesi e ha stabilito che Pregliasco ha l’indice di coerenza più alto.

Professor Pregliasco, quanto è importante che si vaccini il maggior numero possibile di persone?
“Per ottenere un buon risultato di copertura della popolazione l’obiettivo della campagna vaccinale sarebbe quello di raggiungere il 75 % della popolazione. Questo per garantire la cosiddetta immunità di gregge. Ma ci vorranno mesi. Nel frattempo, dovremo raggiungere obiettivi intermedi, soprattutto per garantire i più fragili che sono i soggetti che pagano il pedaggio più pesante a questa patologia. Il Covid-19 è un virus subdolo, tra le sue caratteristiche c’è che spesso non suggerisce il bisogno o l’urgenza di vaccinarsi. Non accade la stessa cosa con altre patologie gravi, come meningite o ebola: in questi casi il singolo ha contezza della gravità della sua malattia, e corre a vaccinarsi, se può. Ma una malattia come il coronavirus può essere percepita come banale, perché gran parte delle infezioni sono asintomatiche e non producono particolari danni soprattutto ai giovani. Ma non è così. In realtà abbiamo invece visto e vediamo che anche nei giovani può determinare conseguenze gravi. Sappiamo che un malato di Covid deve rimanere lontano dal lavoro anche per settimane e per la spossatezza può diventare incapace di svolgere le sue normali attività. Voglio ribadire che questa malattia non va sottovalutata. La sua forza e la sua capacità di penetrazione possono essere arginate con le precauzioni che ben conosciamo: il distanziamento, il lavaggio frequente delle mani, le mascherine. Ma è chiaro che solo il vaccino può consentirci di voltare finalmente pagina”.

Perché c’è diffidenza nei confronti del vaccino?
“La diffidenza ha molte spiegazioni. Una è che ci si vaccina quando si sta bene. La vaccinazione è una sorta di scommessa su un possibile rischio futuro. Quando invece abbiamo un mal di testa feroce siamo disposti ad ingurgitare qualsiasi pillola ci venga proposta e certo non andiamo a leggere il bugiardino per scoprire eventuali effetti collaterali, che invece ci sono anche nella semplice aspirina o nel paracetamolo. Ma la pillola ci dà soddisfazione e quindi nelle occasioni successive, quando tornerà il mal di testa, la riprenderemo, anzi, la consiglieremo ai nostri amici e familiari. Insomma, col farmaco siamo più facilmente disponibili che col vaccino. Vaccinandoci, non sapremo mai se siamo venuti in contatto con il virus o se l’antidoto ci ha schermato, salvandoci dal contagio. Oltretutto nei tempi lunghi la vaccinazione fa sparire anche il rischio e addirittura la memoria del contagio. Questo avviene per tutte le vaccinazioni. Pensiamo alla poliomielite che oggi è un ricordo e un tempo era un vero dramma”.

Come se ne esce?
“Penso che dovremmo avere più fiducia nella scienza e nei dati che essa ci fornisce. Sono dati frutto di studi e valutazioni approfondite, che tengono conto delle esperienze precedenti. Si sente dire che i vaccini contro il coronavirus sono stati prodotti in tempi troppo brevi per non suscitare dei dubbi. È un rilievo infondato. Non può diventare una colpa la straordinaria mobilitazione di tutta la comunità scientifica, la collaborazione tra i diversi Paesi, la velocizzazione delle prassi burocratiche, gli enormi stanziamenti da parte di governi e imprese private, il reclutamento di un gran numero di volontari che hanno accettato di fare da cavie per questi studi e che dobbiamo ringraziare. Gli standard sono stati gli stessi rispettati per la produzione degli altri vaccini nelle epidemie del passato. Non accettare i vaccini anti-Covid sarebbe insomma come rifiutare un nuovo farmaco chemioterapico dicendo che sì, lo userò tra dieci anni, ma prima voglio vedere come va”.

Insomma, il Paese ha bisogno di “correre” verso il raggiungimento dell’obiettivo. Come si può fare squadra?
“Questa campagna di vaccinazione sarà un’epopea e dovrà essere condotta a termine il più velocemente possibile. Solo così potremo non solo lenire le sofferenze delle persone, ma anche recuperare e far ripartire l’economia. Perché il lockdown – non lo scordiamo – non ha ottenuto il risultato di sconfiggere il virus ma solo di mitigarne gli effetti. Non è un provvedimento replicabile a lungo. Ci sono lavoratori e imprenditori in ginocchio, la vaccinazione è l’unico modo per venirne fuori. Vaccinarsi è un modo di proteggere se stessi, i propri familiari, il prossimo. È un atto solidale. Un modo di essere comunità. Ma il ruolo dei singoli deve essere affiancato dai settori dello Stato. È importante, per esempio, che una grande azienda come Poste Italiane si sia ritagliata un ruolo significativo nella logistica e nella distribuzione del vaccino. Una realtà, quella di Poste, conosciuta e vicina con la rete capillare ai cittadini, che mette in campo non solo gli strumenti organizzativi ma anche il senso di fiducia che dà ai cittadini. È importante in questo momento che tutti remiamo nella stessa direzione, solo così arriveremo in porto”.

Leggi tutte le interviste di Postenews