“Ho l’impressione che nel mondo pre-pandemia ci fosse una promessa di futuro ridotta ai minimi, questo smottamento mischierà le carte aprendo degli squarci nuovi e grandi speranze per le giovani generazioni. Non sappiamo cosa accadrà, ma sarà interessante osservarlo”. Paolo Giordano, lo scrittore del cult “La solitudine dei numeri primi” ma anche il fisico che dall’inizio della pandemia spiega sul Corriere della Sera la “matematica del contagio” e le sue implicazioni sanitarie, politiche e sociali, vede all’orizzonte un futuro di luci e ombre nell’immenso romanzo di formazione degli adolescenti travolti dall’esperienza del Covid.
“Il sismografo del cambiamento”
Paolo Giordano era abituato a incontrarli nelle scuole, a parlarci e che ora può immaginarli chiusi con tutto il loro mondo all’interno di una stanza: “Mi incuriosisce capire, sul medio-lungo periodo, quale sarà il portato di questa esperienza sugli adulti di domani e, in profondità, sulla loro formazione. Gli adolescenti sono il sismografo più efficace che noi abbiamo per capire il cambiamento, ma nessuno ha avuto in questi mesi la possibilità di entrare nelle loro stanze per capire cosa sta accadendo”.
Paolo, partiamo dai numeri: è la prima volta che la loro narrazione incide così tanto sulla vita reale. Da fisico e da scrittore, giudichi l’esperienza del Covid un avvenimento in cui la realtà supera la fantasia?
“Possiamo parlare sicuramente di un evento che, nella sua totalità e complessità, non era presente nell’immaginazione di ognuno di noi. I concetti di presente e futuro, temporalità e razionalità, ne sono usciti stravolti. I numeri, come quelli legati al concetto che tutti hanno assimilato di “R con zero”, hanno aiutato, in questo salto di immaginazione, a capire che non si poteva più considerare solo se stessi, ma tutta la comunità di cui si è parte”.
Nei tuoi interventi sul Corriere della Sera hai messo spesso al centro l’importanza della scuola. Cosa hanno perso bambini e ai ragazzi in più di anno di vita?
“Il discorso sulla scuola si è incastrato su un pensiero aprioristico. È stato molto deludente, dopo il primo lockdown, non riuscire ad avere un minimo garantito per nidi, materne ed elementari. Diverso è il discorso per i più grandi, che senz’altro hanno un impatto massiccio sulla mobilità urbana: per mandarli a scuola sarebbero serviti accorgimenti quantitativi che si è preferito non elaborare, perché considerato troppo faticoso”.
Chi ne ha sofferto di più?
“È molto diverso restare chiusi in casa per un bambino di 7 anni e per un ragazzo di 17. Se nel primo caso i genitori restano comunque il principale punto di riferimento, chi è nel pieno dell’adolescenza ha vissuto una situazione innaturale, che avrà un impatto psicologico e sociale che oggi possiamo solo supporre. Verso questi ragazzi c’è stato in più uno stigma che li ha portati a vivere una strana condizione esistenziale: sono stati descritti come i diffusori asintomatici del virus e come i grandi aggregatori. L’adolescenza è stata trattata sommariamente, come se fosse l’età del grande ammucchiamento sociale, dimenticando che in realtà si tratta dell’età della fragilità emotiva e relazionale, in cui non è così semplice connettersi con la socialità”.
Paolo Giordano, nel grande caos della pandemia, che ruolo hanno avuto le aziende nel permettere di conciliare vita lavorativa e impegni familiari?
“Anche le aziende sono chiamate a riempire i vuoti lasciati dalla struttura pubblica. È una situazione in cui, a tutti i livelli, tutti hanno dovuto assumersi un surplus di responsabilità, comprese le aziende. Ci si è resi conto, per esempio, che un’azienda privata può fare la differenza in termini di tecnologia e di flessibilità oraria in una situazione in cui la compenetrazione tra vita sociale e lavorativa è diventata una necessità. Questo meccanismo funziona solo se tutte le parti interessate lavorano per un funzionamento organico e condiviso, non in mutua compensazione”.