“Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità” scrisse in una delle sue ultime lettere a un’amica il 2 settembre 1943 dal campo di smistamento olandese di Westerbork per Auschwitz. Cinque giorni dopo fu caricata con il fratello e i genitori sul treno merci della morte avvenuta il 30 dicembre dello stesso anno a soli 29 anni. In una delle sue prime lettere nel tremendo biennio di deportazioni (agosto 1941- settembre 1943), si firmava “una ragazza insonnolita che si chiama Etty”. Non poteva immaginare allora che il suo Diario, in futuro, l’avrebbe resa famosa come Anna Franck.
Le lettere come testimonianza
Ma Etty Hillesum viene ricordata proprio come una ragazza “radiosa” anche per le 71 Lettere scritte in gran parte dal lager di Westerbork dove rendeva un servizio sociale ai prigionieri in una condizione estrema paragonata a un inferno. Tutte queste lettere aiutano a capire il dramma dell’olocausto che ancora oggi pare incredibile sia potuto accadere. Le lettere 23 e 64 (nell’edizione Adelphi), una quindicina di pagine ciascuna, sono un crudo e memorabile affresco del male che può erodere l’umanità, ma anche testimonianza di fede e amore di una giovane donna di salute fragile tra baracche e fango dove tutto sembrava perduto. “Se penso a quelle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra – racconta Etty – non mi sono mai spaventata tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la frase che è il tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò l’uomo a sua immagine”.
La cronaca dal lager
Annota particolari che sembrano ripetersi ai giorni nostri. A fine dicembre ’42 scrive a due sorelle dell’Aia e racconta episodi e impressioni che danno la misura di Westerbork: “Incontrai persone che erano già state a Buchenwald e Dachau in un’epoca in cui per noi questi nomi erano ancora suoni lontani e minacciosi. Incontrai persone che avevano girato il mondo su quella nave che non aveva avuto il permesso di approdare in nessun porto: ve ne ricorderete di certo, allora i nostri giornali ne parlarono abbondantemente…Una sera d’estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, e riflettevo con aria ispirata: “Si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork”. Un uomo anziano seduto alla mia sinistra – anche lui con il suo cavolo rosso – aveva replicato: “Sì, ma ci vorrebbe un grande poeta”. Quell’uomo ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta, le semplici cronache giornalistiche non bastano più. Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze…e anche a proposito di filo spinato non si possono fare resoconti pittoreschi a coloro che sono rimasti fuori: mi domando del resto quanti ne potranno rimanere fuori, se la storia insiste ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi”. E ancora: “C’è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le costole si deve proprio possedere un gran sole interiore se non se ne vuol diventare la vittima psicologica… A volte si pensa che sarebbe più semplice essere finalmente deportati, e non dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia di prigionieri – uomini, donne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati e anziani – che in una processione quasi ininterrotta sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli…Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva…Certo non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto ai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora sarà troppo poco. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato… Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancor più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma con ostinazione, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera”.