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Il rapporto tra Andrea Camilleri e la buca delle lettere: il racconto è contenuto all’interno del primo lavoro editoriale prodotto nel 2005 dall’Archivio Storico e Artistico di Poste Italiane, un volume dedicato alla buca delle lettere, nel quale se ne racconta l’evoluzione. Il narratore d’eccellenza è appunto Andrea Camilleri – negli anni di pieno successo editoriale con la saga del Commissario Montalbano – che ha prestato la sua penna all’Azienda con un racconto dal titolo “La cassetta e io”. Un testo introvabile, una testimonianza esclusiva e straordinaria che Postenews e l’Archivio di Poste Italiane hanno riscoperto insieme, dando ai nostri lettori la gioia e il piacere di leggere l’inconfondibile tratto di uno degli scrittori più amati degli ultimi vent’anni e scomparso il 17 luglio 2019.

La cassetta e io

di Andrea Camilleri

“… all’esterno, ad un metro e 30 centimetri
circa dal suolo, deve praticarsi una buca
corrispondente ad una cassetta interna,
atta in modo che l’acqua non vi penetri,
e che non vi possa dal di fuori estrarre le
lettere gettate nella medesima…”

(dalle Istruzioni Speciali Provvisorie per il servizio
della posta e delle lettere – 1 marzo 1861)

Se le buche delle lettere ci raccontano la loro storia, io vorrei a mia volta ricambiare, raccontando quello che mi capitò, poco più che decino, con una cassetta delle lettere. Il brano del regolamento da me sopra citato risale al 1861: posso garantire che nel 1936, quando ebbi a che fare con una cassetta per le lettere, essa era perfettamente a norma di regolamento, anche se vi campeggiavano lo stemma reale e il fascio littorio: era collocata a circa un metro e 30 centimetri dal suolo, era impenetrabile all’acqua ed era impossibile tirare fuori una delle buste che c’erano dentro.

Al mio paese, all’epoca, cassette per le lettere ce n’erano tre: una vicino al porto, una di fronte al municipio e la terza all’inizio dell’unica strada che tagliava il piano Lanterna, poche case abitate da pescatori contadini, gente che scriveva poco o niente.

Io, da tre mesi, mi ero innamorato di Anna. Una bambina mia coetanea, bionda e bellissima (lo è ancora oggi nella memoria), per la quale tutta intera la mia classe (maschile, naturalmente) stravedeva. Non che tra di noi accennassimo a lei, ma era facile capirlo perché, per esempio, all’uscita della messa domenicale di mezzogiorno, tutta la classe era lì, in ordine sparso, in attesa della sua apparizione in cima alla scalinata della chiesa.
Parlare con Anna, impossibile. Frequentava la mia stessa scuola, ma era in una classe femminile e inoltre la mattina l’accompagnava il padre e la madre veniva a riprenderla al termine delle lezioni. Se non potevo parlarle, potevo però farmi vedere da lei. E le escogitavo tutte per trovarmi a breve distanza da Anna e taliarla in continuazione. E un giorno macari lei mi taliò. O meglio, posò per un attimo i suoi occhi sopra i miei e subito appresso volò via. Persi mezza nottata a domandarmi se quella brevissima taliata poteva significare in qualche modo una risposta ai miei sguardi insistenti. Ma non seppi arrivare a una conclusione. Così quella mattina dissi a mia madre che non mi sentivo bene e invece di andare a scuola rimasi a casa a scrivere una lettera ad Anna. Sapevo dove abitava perché più volte l’avevo seguita. Scrissi una trentina di volte una stessa brevissima frase perché, per l’emozione, o la sbagliavo o la macchiavo d’inchiostro: “Anna, ti voglio bene. E tu? Sono io, Andrea”. Quando finalmente riuscii a fare una cosa decente, infilai il foglio in una busta, presa dal cassetto della scrivania di mio padre, ci scrissi sopra l’indirizzo, dallo stesso cassetto pigliai un francobollo e mi trovai pronto per andare a impostare la lettera. Avevo deciso di servirmi della cassetta di piano Lanterna, lì il rischio di essere visto da qualcuno dei miei familiari o dei miei compagni era praticamente nullo. Stavo per uscire quando mia madre me lo proibì, era già l’ora di pranzare. E inoltre non vedeva la ragione per la quale io uscivo, se avevo detto di sentirmi poco bene. Di conseguenza, aggiunse, sarei dovuto restare a casa tutto il giorno. Nel pomeriggio la situazione improvvisamente cambiò in mio favore. Andato papà in ufficio, poco dopo la mamma mi disse che andava a trovare una sua amica malata.

Dopo cinque minuti che la mamma era uscita, scappai da casa con la lettera in mano e le chiavi di riserva, che papà teneva nel solito cassetto, nella mia tasca. Calcolai che la mia assenza da casa sarebbe durata al massimo una mezz’ora e quindi nessuno dei miei si sarebbe accorto della mia breve fuga.

Uscendo, la prima cosa che notai fu che minacciava di piovere. Mi misi a correre e arrivai davanti alla cassetta di piano Lanterna col cuore in gola, un po’ per la corsa un po’ per l’emozione: era la prima lettera che imbucavo. E subito il primo intoppo: per quanto mi alzassi sulle punte dei piedi, per quanto mi stirassi, non arrivai a infilare la lettera dentro l’apposita apertura nella cassetta. Poco lontano c’era un grosso sasso piatto, corsi a prenderlo, pesava un accidenti, lo misi ai piedi della cassetta, ci salii sopra e riuscii finalmente a far passare la lettera attraverso l’apertura. Notai anche che il battente di chiusura era restato semiaperto e che la lettera non era interamente caduta dentro, doveva essersi incastrata da qualche parte perché se ne vedeva un triangolino bianco. Ad ogni modo, era fatta. Sulla strada del ritorno un pensiero mi folgorò. Ma Anna lo sapeva che mi chiamavo Andrea? E che quell’Andrea ero io, dato che nella mia classe c’era un altro Andrea? Se non lo sapeva, quella lettera, per lei, sarebbe stata incomprensibile, avrebbe saputo che esisteva un Andrea che l’amava, ma chi era? Com’era fatto? La soluzione mi venne in un attimo. Avrei recuperato la lettera e vi avrei messo dentro una mia fotografia. Arrivai a casa con i vestiti che mi si appiccicavano per il sudore, trovai una foto in divisa da balilla e, mentre si scatenava una specie di diluvio, tornai alla cassetta. E qui cominciò una sorta di duello. Le punte delle mie dita, per quanto mi sforzassi, non arrivavano nemmeno a sfiorare il triangolino bianco della mia lettera. Come fare? Mi venne in mente che, tra le chiavi di casa che avevo in tasca, ce n’era una molto lunga. Con essa riuscii a raggiungere il triangolino e a smuoverlo leggermente, ma in quanto a tirar fuori la lettera con quel sistema non c’era manco da parlarne. Che fare, Dio mio, che fare? Mi ricordai che a casa avevamo una specie di pinza per prendere le zollette di zucchero. Altra corsa dissennata. Ma quando mi trovai davanti alla cassetta con la pinza in mano ebbi l’impressione che essa, col battente semiaperto simile a una bocca sdentata, ridesse di me e mi sfidasse. I vestiti, inzuppati di pioggia, mi pesavano e m’impacciavano nei movimenti. Infilando dentro tutta la pinza, riuscii ad afferrare il triangolino bianco ma, proprio nel momento nel quale stavo per cominciare a tirare fuori la lettera, il sasso sotto di me scivolò sulla fanghiglia, la pinza mi sfuggì dalle mani, cadde dentro la buca e contemporaneamente io mi ritrovai spiaccicato in terra. Aveva vinto la cassetta. Durante la notte mi pigliò il febbrone. Quando mi ripresentai a scuola, giarno e smagrito, Anna non mi taliò. Notai, con dolore, che invece taliava e perfino sorrideva al mio compagno Andrea Cosentino. Certamente lo credeva l’autore della “mia” lettera d’amore. Ah, se fossi riuscito a ripigliare la lettera e a metterci dentro la mia fotografia!

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