Meno male che ci sono i francobolli. In un Paese in cui la monumentalistica statuaria ormai non esiste più (salvo rarissime eccezioni siamo fermi ai primi anni del secolo scorso): ecco perché, dove scompare la forza volumetrica del marmo e della pietra, resiste solo l’impalpabile tenacia opalescente della filigrana. E così, nel tempo in cui il passato prossimo diventa storia, sono questi ritratti di carta fustellata degli inquilini del Quirinale il ricordo più tenace che resta, nella memoria collettiva, per ricordare tre grandi presidenti della Repubblica.
Le cartoline presidenziali
È curioso osservare questo particolare corto circuito tra filatelia e cronaca. Con la nomina del nuovo Capo dello Stato, diventano di nuovo attuali gli eleganti folder filatelici a tre ante che Poste Italiane ha realizzato, solo pochi anni fa (nel 2018) per raccogliere tre francobolli e tre cartoline presidenziali affrancate e vidimate. Si tratta di una tiratura limitata per collezionisti (di 4.500 pezzi) con l’annullo del primo giorno di emissione. Tutti i raccoglitori contengono il ritratto stilizzato, l’immagine del Presidente, tre foto storiche e – ovviamente – il francobollo ufficiale.
La collezione dei Presidenti
Nel primo specchio del raccoglitore c’è Giovanni Gronchi, nel secondo Giuseppe Saragat, e nel terzo Oscar Luigi Scalfaro. Con questa emissione speciale, dunque, si compie un primo bilancio per i collezionisti più attenti: la Repubblica italiana ha appena eletto il suo tredicesimo presidente, e nove di loro hanno già trovato una sistemazione storicizzata in un francobollo commemorativo. Con l’eccezione di Francesco Cossiga (non effigiato) e dei due che sono ancora in vita (Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano), dunque, tutti i nostri primi cittadini della Repubblica, in un modo o nell’altro sono già finiti su lettere e cartoline.
Il potere della fantasia
E ovviamente, al solo pensiero di chi ancora manca, già la fantasia si sbizzarrisce: nella mia mente – per esempio – Cossiga dovrebbe essere effigiato in modo non convenzionale, come di certo avrebbe voluto lui, prendendo come modello la famosa foto con il piccone in mano. Ricordo con molto divertimento che di questo “storico” scatto mi ritrovai accidentalmente ad essere testimone, ad Erice, in Sicilia, in un giorno dell’agosto del 1999, in cui andai a intervistare il Presidente. “Volete che dopo tutto quello che ho fatto in questi anni, mi rifiuti di posare con lo strumento che io stesso ho scelto come mio emblema?” disse il Presidente.
Un ritratto informale
Mi piacerebbe dunque che per ogni presidente si potesse produrre una moltiplicazione filatelica, che tenesse insieme il diavolo e l’acquasanta, l’informalità e l’ufficialità che sono il sale di ogni racconto completo. Ci vorrebbe non un solo soggetto, dunque, ma più di uno, per ogni presidente. Di Enrico De Nicola, per esempio, si dovrebbe commemorare anche la leggendaria brandina con cui si trasferì a Palazzo Barberini nottetempo (appena nominato) perché non voleva ancora soggiornare al Quirinale: “Un presidente non può dormire nel luogo dove fino a ieri dormiva un Re!”. Il primo dei dodici Presidenti, celebre avvocato, da Torre del Greco, provincia di Napoli, fu “presidente provvisorio” perché durante il suo mandato si celebrò il referendum Monarchia-Repubblica che avrebbe potuto in linea teorica defenestrarlo a pochi mesi dal suo insediamento. L’Italia presidenziale, dunque, se avesse vinto la Monarchia, avrebbe potuto fermarsi ad una sola fugace figurina. Un solo annullamento, prima di una nuova serie di Re: quella vittoria, invece, ha aperto un intero orizzonte che stiamo raccontando.
Tra pipe, coppe e scoponi
Sandro Pertini, ovviamente, dovrebbe essere ricordato con la sua immancabile pipa, come del resto è stato fatto nel francobollo. O raccontato con un ritratto del mitico fumettaro Andrea Pazienza, che lo disegnava sempre, fino a far diventare questo alter ego un suo personaggio, con un immancabile fazzoletto partigiano al collo. Oppure Pertini dovrebbe essere immortalato nella celebre immagine in cui alza la coppa dei campioni del mondo, in Spagna, nel 1982. Se è vero che le Poste hanno ricordato quell’evento con il dettaglio delle mani di Dino Zoff sulla statuetta d’oro della Fifa, perché non consegnare alla storia quel celebre panciotto, aggiustato con gioia, dopo il terzo gol di Paolo Rossi? Qui filatelia fa rima con storiografia. A Pertini piaceva molto trasformare l’aereo presidenziale in una sorta di dependance mobile della Repubblica, e al termine di viaggi storici, coronare il ritorno a Roma con memorabili partite a scopone. Massimo D’Alema ha ricordato che in un altro volo, tornando dai funerali del presidente russo Andropov, lui incauto raccoglieva punti sul tavolino pieno di figure. Pertini sembrava di cattivo umore, e ad un tratto un altro passeggero eccellente, Giulio Andreotti, gli sussurrò nell’orecchio: “Non si fa punto contro un Presidente della Repubblica”. Sublime. Ma Pertini fu un presidente con le cuffie per ascoltare l’Italia di Alfredino nel buco nero di Vermicino, fu il presidente che gridò “Assassini!” ai brigatisti durante i funerali dell’operaio Guido Rossa, fu il presidente con le scarpe impolverate in perlustrazione tra i paesi distrutti dal sisma, che criticò lo Stato (quello che lui stesso rappresentava) per i mancati soccorsi dopo il terremoto in Irpinia del 1980. Non merita un francobollo ognuna di queste tre istantanee?
Le corna di Leone
Un curioso destino fa sì che le scelte più contestate (all’epoca) siano anche quelle più celebrate (oggi). Il cronista politico, per esempio, si domanda se il fine giurista Antonio Leone potrebbe essere racchiuso nella sua immagine più sorprendente, quella in cui fu sorpreso a fare il gesto delle corna agli studenti che lo contestavano (Giorgio Forattini disegnò delle corna che finivano avvolte nelle sabbie mobili e scrisse: “Dimissioni”). Mentre Oscar Luigi Scalfaro, giustamente, nel suo francobollo dell’album speciale di Poste del 2018, ha la posa e l’espressione che più gli piaceva, quella con lo stemma della Repubblica sul bavero, la mano sotto il mento, la bocca attraversata da un taglio di sorriso grintoso. A ben vedere, in questa immagine c’è già racchiuso, come una possibile epigrafe, il suo celebre «Io non ci sto!». Che non a caso fu pronunciato, in diretta Rai, con la stessa postura.
Il più “famoso” di tutti
Del terzo presidente Giovanni Gronchi, invece, si può annotare un incredibile caso di rovesciamento di contenuto. Se si digita il suo cognome su un qualsiasi motore di ricerca, infatti, il primo esito che si incontra non è il suo volto, ma un francobollo. E questo perché tutti sanno che il “Gronchi rosa” è un enorme topos filatelico, la storia di un valore postale il cui corso di validità legale sarebbe dovuto iniziare il 6 aprile 1961, data di partenza del presidente: ma la validità dell’affrancatura fu sospesa per un errore drammatico (i confini del Perù erano sbagliati) riprodotti in quella cartina celebrativa. E così il francobollo fu sostituito con il meno noto “Gronchi grigio”. Oggi Gronchi avrebbe bisogno di una nuova emissione per tornare a tutti gli effetti presidente (e uomo) dopo essere stato trasfigurato in un pezzo di collezione e in valore di mercato. Per la cronaca: “un Gronchi” (francobollo), non vidimato, vale circa mille euro. Mentre uno dei rarissimi Gronchi vidimati supera sul mercato i 30mila euro. Gronchi era pisano, di Pontedera, e fu il primo a dire in un discorso di insediamento: “Non mi limiterò ad un ruolo di notaio”. Sul piano iconografico, tuttavia, il quarto presidente amava curare la propria immagine, e regalò miniere di immagini ai posteri: Gronchi che inaugura il primo “calcolatore” (antenato del computer al CNR), Gronchi che taglia il nastro dell’Autostrada del Sole. E – dulcis in fundo – persino un inconsueto Gronchi privato, quello che fa partire da capostazione, per il figlio, il primo trenino mai introdotto al Quirinale. Quel che i francobolli non potranno mai registrare, invece, è una celebre caduta che mise fine alla sacralità presidenziale. Alla Scala il presidente si sedette senza avere dietro la poltrona, e fu costretto ad esibirsi in un grottesco capitombolo. Quando dei giovanissimi Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi decisero di mimare a caldo, in una scenetta satirica quella caduta, il loro programma sul primo (e unico) canale Rai, “Un, due tre”, fu chiuso senza nemmeno bisogno di spiegazioni.
Fratelli d’Italia
Forse, per contrappasso, da quel giorno la satira – anche la più feroce – non risparmierà più nessuno dei presidenti. Forattini, per esempio, amava raffigurare persino Carlo Azeglio Ciampi come un bonario cane pezzato. Ed è stata una delle sue parodie più affettuose (quelle degli altri erano molto più perfide) di un presidente azionista, raffinato, che avrebbe potuto entrare nella filatelia con uno scatto che amava molto, quello in uniforme militare. Ma Ciampi dovrebbe essere ritratto in coppia con il maestro Umberto Novaro, perché è l’uomo che ha fatto riscoprire alla Nazione (e alla Nazionale) uno dei più belli inni risorgimentali d’Europa: Fratelli d’Italia.
Drammi, satira e presidenti mancati
Di Segni, sassarese doc, e quarto inquilino del Quirinale, la storiografia ci ha consegnato un ritratto in cui si compongono luci ed ombre. Ciò che è certo che il suo fu il mandato più breve della storia repubblicana. Il 7 agosto del 1964, infatti, dopo un drammatico incontro con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, Segni venne colpito da un collasso cardiocircolatorio che produsse danni irreversibili e lo costringerà a letto fino al giorno delle dimissioni. Metà del suo corpo resterà paralizzata fino alla morte. Quanto al suo successore, il socialdemocratico Giuseppe Saragat, l’ideale epigrafe del volto di espressione seriosa immortalata nel francobollo di Poste è il contrappunto pirotecnico di un corsivo d’autore. Quello con cui, in sole sei righe, Indro Montanelli racconta Saragat: “Resterà sempre il caro nemico di Nenni, la bestia nera di Togliatti, e soprattutto di Longo. Solo un uomo impermeabile alle voci altrui – concludeva Montanelli – poteva passare indenne quel periodo e sfidare piazze schiumanti di rabbia e odio contro il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato. Cioè lui”. Vero, verissimo. Ma la solita satira raffigurava Saragat sempre con il fiasco in mano, e lo stesso Montanelli gli affibbiava anche il perfido nomignolo, beffardamente enologico, di “Barbera”. Per fortuna questo dettaglio resta fuori dalla sua storia filigranata. Al termine di questo viaggio per immagini, storie, retroscena e colori, bisogna ricordare che Amintore Fanfani sognò per una vita di diventare Presidente: ma non riuscì ad arrivarci mai. Aveva i numeri, ma fu clamorosamente vittima dei franchi tiratori del suo stesso partito.
Un lavoro in filigrana
E qui si arriva all’ultimo nesso recondito che collega l’inquilino del Colle alla filatelia. Il presidente della Repubblica in Italia è un custode: il garante della Carta Costituzionale. Si è discettato molto sui suoi poteri “formali”, che sono pochi, e di fatto limitati alla controfirma delle leggi, al potere di sciogliere le Camere e di nominare (sentiti i partiti e il Parlamento) il presidente del Consiglio. Ma in realtà, sul piano informale, il Presidente ha poteri enormi, e un vero e proprio super-potere: la moral suasion. L’arte di dissuadere bisbigliando. Il presidente opera senza clamore, ed è molto più incisivo quando non parla che quando parla. Il presidente è una figura complessa e interessante: un eletto di secondo grado (da altri politici) che spesso si è conquistato un consenso popolare contro la politica. Uomini di sofisticata cultura istituzionale – basti pensare a Mattarella o a Giorgio Napolitano – che spesso si sono conquistati una dimensione di consenso pubblico, e squisitamente nazionalpopolare. Ecco perché il lavoro del presidente è un mestiere particolarissimo e coperto. Un lavoro – senza alcun dubbio – che si può esercitare solo se si sa lavorare “in filigrana”.
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