Roma, 24 dic – L’Intelligenza artificiale (AI) può aprire nuove frontiere nelle neuroscienze, fornendo ad esempio strumenti utili per la diagnosi precoce di malattie come l’Alzheimer.
A guidarci negli ultimi sviluppi della ricerca è Antonio Cerasa, neuroscienziato ricercatore del Cnr, autore con Francesco Tomaiuolo del libro “La scatola magica – All’origine delle neuroscienze” uscito quest’anno, in cui ripercorrono la storia di questa disciplina attraverso figure e scoperte che hanno contribuito a svelare molti aspetti del cervello e del suo funzionamento.
In che modo le neuroscienze hanno cambiato la conoscenza della scatola magica?
“Con Francesco Tomaiuolo siamo andati a trovare tracce di modernità. Siamo andati a scoprire i padri fondatori della nostra disciplina. In particolare c’è un personaggio che risponde alla sua domanda, si tratta di Peter Milner, famoso più che per sé per il fatto di essere il marito di Brenda Milner. Peter – racconta Cerasa – era un ingegnere che si occupava di radar, nulla a che vedere con il cervello e con le neuroscienze. La moglie lo spinge a lavorare con lei, a studiare il cervello, lui accetta e conosce un giovane laureato in psicologia James Olds e insieme scoprono l’area delle emozioni. Un po’ di serendipity, un po’ di caso e fanno una delle più grandi scoperte delle neuroscienze! Quindi la risposta alla sua domanda è che le neuroscienze hanno portato questa multidisciplinarietà nello studio della scatola magica. Multidisciplinarietà che ritroviamo anche in un altro personaggio, Wilder Penfield, che nel 1934 ha costruito il primo tempio delle neuroscienze (il Montreal Neurological Institute-MNI, ndr) con questo scopo: curare le malattie, ma per curare le malattie non bastano solo il neurologo o il neurochirurgo servono anche altre discipline, solo tutte le discipline scientifiche insieme possono occuparsi di un organo così complesso come la scatola magica”.
Su cosa in particolare sta puntando oggi la ricerca, a quali domande vuole cercare di rispondere?
“In particolare con l’Intelligenza artificiale la parola magica è ‘previsione’. Si cerca di prevedere il comportamento umano. Io mi sono occupato con alcuni ingegneri di sviluppare algoritmi che prevedessero, ad esempio, se la mia personalità poteva essere simile a quella di un giocatore d’azzardo patologico, quindi prevedere se ho una vulnerabilità al gioco d’azzardo. Oppure prevedere se la mia smemoratezza potrà un giorno diventare Alzheimer. Oppure prevedere tramite gli algoritmi di intelligenza artificiale se il mio tumore evolverà in qualcosa di maligno o no, e questo già è presente nella pratica clinica. Tutte queste grandissime possibilità che l’intelligenza artificiale ci offre difficilmente però – osserva il neuroscienziato – riescono a passare nella pratica clinica di tutti i giorni. E questo per tante ragioni. Una in particolare, di cui si parla poco, è la difficoltà a capire come gestire bene il dato: la privacy del paziente, dove viene messa l’immagine, lo storage, come viene protetta. L’aspetto normativo è ancora in totale divenire e quindi in Italia ci sono pochissimi centri in grado di gestire queste problematiche per dare al medico, alla pratica clinica, delle informazioni utili. Mi piace citare un gruppo di ragazzi che ho visto crescere che hanno creato un algoritmo che si chiama TRACE4AD in grado di predire, fare diagnosi precoce di Alzheimer con elevata validità. Questo algoritmo risponde a tutte le esigenze sia in ambito giuridico sia in ambito medico”.
Praticamente come funziona?
“Beh ad esempio inserisco dei dati comportamentali, clinici in questi grandi computer a cui ho già insegnato a riconoscere A da B, in questo modo il computer è pronto per essere testato su nuovi gruppi. Si tratta di un processo molto lungo ma se viene fatto in maniera ampia riesce a dare informazioni che non devono sostituire il medico, devono solo accompagnarlo. E’ uno strumento, esattamente come il cellulare”.