Uffici Postali al centro del villaggio: viaggio nella “Piccola Italia”

È come stare in un avamposto. Come sorvegliare un confine, spesso soli, e sempre in una fortezza sperduta. Ti vengono in mente le grandi suggestioni narrative de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, e invece stiamo raccontando la storia piccola, ma epica, degli Uffici Postali nei centri minori. Paesi che spesso vanno da duecento a quattrocento anime, dove lavorare per Poste diventa quasi una missione civile.

L’abbraccio di una comunità

Il mio viaggio parte da un piccolo paesino del basso Lazio, da Terelle, in provincia di Frosinone. La direttrice dell’ufficio, Debora Arcaro, è la principale (di se stessa) da tre anni. Si tratta infatti, come in tutti i casi che racconterò, di un ufficio monoperatore. Uno dei più piccoli d’Italia: 40 metri quadri, tutti distribuiti dietro la scrivania in un appartamento, tanto che dentro non c’è nemmeno spazio per una sedia. Debora ti racconta con entusiasmo la sua realtà: “Il paese ha 360 abitanti, ma i residenti veri sono poco più di 200. D’inverno si spopola, d’estate si ripopola. L’ufficio è sotto la Chiesa, lontano dal centro, un po’ isolato, il cellulare lì non prende, l’insegna è stata sradicata via dal vento, in una notte di tempesta, e non si è trovata più”. Già, perché d’inverno Terelle – mille metri di altezza – viene sommerso dalla neve e colpita dai temporali: “Alla prima ti abitui, ai secondi mai. Sapessi quante volte – sorride la direttrice – devono venire i tecnici a ripristinarmi le linee perché salta tutto!”. Eppure, a Debora questo lavoro piace, e lo fa con grande passione: “Ero andata a Pontecorvo, in un centro più grande, ma sono tornata. Abito a Villa Santa Lucia. Se passo per la provinciale ci metto 15 minuti. Con la strada corta, in mezzo alle nostre montagne, ci metto dieci minuti, anche se devo stare attenta agli animali selvatici”. E poi… “E poi ogni mattina, la mia unica vicina, la signora Liliana, viene con il thermos pieno di caffè. E inizia la mia giornata”. Ed ecco cosa piace a Debora: “È vero, in un ufficio così lavori molto più che altrove. Però hai la percezione della tua indispensabilità. E questo per me è la massima gratificazione”. Racconta Debora degli anziani che si mettono disciplinati in fila all’aperto, come se nulla fosse, anche d’inverno. Degli ottantenni a cui ha spiegato lei come si fanno le firme digitali: “Ci stanno dei vecchi qui, che sono delle bombe, che ti seguono nella dematerializzazione come se nulla fosse”. Lei ha 44 anni, una famiglia, ma ha trovato l’abbraccio di una comunità, il senso di protezione: “Mi coccolano. Mi avvisano se vedono persone non del posto, o se c’è qualcuno sospetto” se arriva un corriere quando lei non c’è. Così Debora non vorrebbe saltare mai un giorno di lavoro, e – Covid a parte – va in ufficio anche se è malata o dolorante: “Sai la cosa più bella del mondo qual è per me? La fiducia. Firmano sul pad e ti sorridono. E tu capisci che c’è un legame vero”.

Passa tutto per le tue mani

Se dal Lazio passi alla Sicilia, e arrivi fino a Stromboli, trovi una storia diversa ma simile. È quella di Eliana Bonanno, una donna che sarebbe di sicuro piaciuta ad Andrea Camilleri. Eliana lavora a Stromboli da sei anni, e ha scelto lei di lasciare la capitale, Palermo, per l’isola. Il marito era d’accordo, ma i figli – grandi – erano increduli: “Mamma, non sarai mica impazzita?”. No, non era impazzita. Quando è arrivata ha trovato uno degli ultimi uffici d’Italia che aveva la sua sede in un appartamento privato, e le veniva da ridere per il meraviglioso mobilio d’epoca primi Novecento, con gli archivi e le serrandine in mogano: “Bello ma poco pratico. Per fortuna mi hanno fatto un ufficio tutto nuovo, moderno, molto più pratico, funzionale, e anche dotato di Atm”. Spiega: “Gli abitanti stanziali sono quasi 400, si vive bene, ci si conosce tutti: ormai sono quasi vicina alla pensione, è vero che ti mancano i comfort della grande città, è vero che lavori molto di più, ma ci sono giorni meravigliosi in cui quando finisco di lavorare io prendo un telo e me ne vado al mare. Chi altri ti può dare un posto di lavoro come questo?”. Aneddoto buffo: “Alla fine tutto passa per le tue mani. E io cercavo di capire perché ogni anno mi arrivassero sempre lettere affrancate per persone inesistenti”. E poi? “Poi ho capito: le spedisce un appassionato di filatelia che vuole il francobollo con la mia vidimazione”. Cult. Anche Eliana prova quella sensazione di soddisfazione enorme: “Conoscere tutti, sentirsi utile a tutti: la mia, sia detto senza troppa enfasi, è una scelta di vita”.

Ufficio vista mare

A Cervo, in Liguria, un meraviglioso e incantato paesino incastonato sulla costa. Sembra un presepe, ripido e scosceso, tutto in pietra. Paolo Elena, il direttore dell’ufficio, uomo gioviale e spiritoso, qui ci è nato. Ci sono 1.300 abitanti sulla carta, meno di mille residenti. E lui racconta: “Mio padre era di Cervo, mio nonno di Cervo. Io sono entrato in Poste nel 1988. E quando sono arrivato in questo ufficio, nel maggio del 2015, si è chiuso un cerchio della mia vita”. È partito come portalettere da Ventimiglia, e poi, piano piano, si è avvicinato a casa. Lavorava a Imperia, un quarto d’ora di strada, ma non aveva mai abbandonato la sua casa. Quando il suo superiore gli ha chiesto: “Vuoi andare a fare il direttore a Cervo?” non ci ha pensato due volte. Aggiunge: “Posso dire davvero di conoscere tutti, da sempre. E questo mi aiuta molto”. Già, perché tra appuntamenti di consulenza, conti correnti, attivazione di schede telefoniche, non si smette di lavorare mai. “Le persone – racconta – le devi aiutare a capire: un giorno arriva una signora disperata dicendomi che il Postamat era guasto. Ma in realtà stava provando a prelevare con la tessera del supermercato!”. Ride: “Un altro giorno stavo cambiando la SIM a un’altra signora. Mi fa: “Potrebbe anche copiarmi i numeri della rubrica?”. Certo, faccio io, che ormai a duplicare gli indirizzari digitali sono diventato una scheggia…”. E invece? “E invece lei tira fuori l’agendina cartacea e mi fa: “Ecco!” (ride, ndr)”. Anche Paolo ha la sensazione di erogare dei servizi indispensabili: “Quando consegno una pensione io so chi la incassa e lo guardo negli occhi. Sono molto soddisfatto. È un paese di anziani: non c’è più la banca, non ci sono altri servizi, ci siamo solo noi”. Ed ecco perché il lavoro comprende molti extra: “Ai turisti recito a memoria gli orari dei pullman. Agli anziani con la vista bassa leggo le lettere. Sto sulla via Aurelia, al numero 70, dove viaggiavano gli antichi romani”. E aggiunge: “Non c’è mai stato un solo giorno che non ho avuto gente in ufficio. E tengo un conto speciale, quello di chi ogni anno, il 31 dicembre, entra 5 minuti prima che si chiuda. E allora faccio: “Guarda che una volta o l’altra pubblico i nomi”. È uno scherzo, ovviamente. Però il senso è questo: dalla mia finestra dell’ufficio vedo l’Aurelia, da quella di casa vedo il mare. Sono un uomo fortunato”.

Meglio lavorare che divertirsi

A Boccassette, in provincia di Rovigo, trovo l’ultimo personaggio di questo piccolo viaggio da un capo all’altro dell’Italia: è Greta Budo, la Direttrice dell’Ufficio Postale. Parla un italiano molto forbito, con un evidente e melodico accento veneto. Ma mi dice subito: “Guardi che io sono albanese. Dopo essermi laureata in Italiano ho dovuto imparare il veneto, altrimenti non potrei fare questo lavoro”. Regge l’ufficio da quattro anni. Ride: “Bisognerebbe dire meglio. Sono l’unica che ha resistito quattro anni”. Ha iniziato come sportellista nel 2006. Poi si è formata in un ufficio più grande, a Taglio di Po. Freddo, nebbia, inverni lunghi. Ma nemmeno a lei dispiace lavorare da sola: “Essere monounità ha i suoi pro e i suoi contro”. Dice dell’ufficio: “Era un po’ abbandonato, adesso è un gioiellino”. Greta abita a Porto Tolle, è giunta in Italia per seguire il marito, dopo un colpo di fulmine molto romantico: “Era venuto a lavorare in Albania, io gli dovevo fare da interprete, mi sono innamorata traducendo le sue parole”. E dice ancora, sulla lingua: “Il dialetto non lo parlo, ma lo capisco benissimo. Tutti mi parlano esclusivamente in dialetto. È parte del lavoro”. Greta ha fatto la mediatrice culturale. Poi l’assicuratrice – e guadagnava più di ora – ma le piaceva questo: la dimensione dell’ufficio, l’idea di essere un riferimento. “Mi sto già formando in azienda come consulente finanziaria, forse dovrò lasciare questo ufficio, e confesso che un po’ mi spiace”. Ogni giorno, da casa sua, ci mette 15 minuti ad andare, e 15 a tornare: “La nostra partita più importante sono le pensioni. L’ufficio ti si riempie, ed è una cosa a metà strada fra una funzione vitale e un rito”. Esempio: “Io per fortuna ho una memoria fotografico-concettuale per i numeri. C’era una signora molto angosciata perché non riusciva a capire come mai non le tornasse un prelievo di 300 euro. Io ho guardato l’estratto e le ho detto: “Ma come, non ti ricordi? Li hai prelevati da me, perché li hai usati per pagare l’imbianchino!”“. Fantastica. Ma il motivo per cui Greta ama il suo lavoro è perché si sente amata e protetta dalla sua comunità. È tosta, solare, determinata, i figli quando torna a casa le dicono: “Mamma, tu anche quando stai a casa pensi all’ufficio”. E un po’ è vero: devi organizzarti il lavoro prima, sennò sbagli. Devi pensarci sempre, sennò qualcosina ti sfugge. Le chiedo la cosa più poetica che le sia capitata in questi anni, e le strappo l’ultimo sorriso: “L’immondizia”. Resto per un attimo interdetto e Greta mi fa: “Ho dei bidoni davanti alla finestra dell’ufficio, e un giorno mi era scappata una battuta in cui avevo detto: “Sono in disordine”. E cosa è successo? “Da allora, ogni giorno, passano degli anziani che mi mettono a posto i bidoni dell’immondizia. Ecco perché quando arrivo e guardo fuori dalla finestra sono subito di buonumore”. Mentre la ascolto mi viene in mente una massima di Baudelaire, che vale per lei, ma in fondo anche per tutti gli altri protagonisti di questa storia: “Lavorare è meno noioso che divertirsi”.