Dal museo di Kiev a un bunker per proteggerla da una possibile distruzione causata dalla guerra. Saggia precauzione per una statua di Antonio Canova alla Pace, commissionata da un russo facoltoso al grande artista neoclassico la vigilia della campagna di Russia condotta da Napoleone Bonaparte e finita con la disastrosa ritirata francese nel 1812.
La scultura
La storia di questa scultura del Canova la si trova nel suo epistolario, uno dei carteggi più voluminosi tra quelli di artisti di ogni tempo. Il secondo centenario della morte del Canova avvenuta il 13 ottobre 1822 cade nel mezzo di un conflitto distruttivo proprio in Ucraina. La triste coincidenza rende di speciale attualità la storia della scultura della Pace narrata in una lettera. Mentre la scolpiva, l’11 febbraio 1812 il Canova rispondendo all’amico Quatremère de Quincy scriveva: “La statua della Pace si farà: vengane la guerra; essa non potrà impedirla. Ma io temo bene che alla pace generale non si farà statua per ora. Così si potesse farla, come io l’alzerei a mie spese!”. La statua era stata commissionata dal colonello Romanzoff, ministro di stato dell’impero russo e la consegna doveva avvenire entro tre anni. “Voi – rispondeva l’amico – me mandate che dovete far una Pace per la Russia, ed io vi mando che fra poco faremo la guerra con questa potenza. Fate dunque presto la vostra statua, se bramate che non sia un qui pro quo. Oh la bella statua che sarà quella della vera pace universale! Ma non la vedremo”.
Canova, “Omo senza lettere”
Le lettere di Canova trattano i temi più disparati attinenti sia l’amministrazione di un’importante bottega da scultore sommersa da un’infinità di richieste di ritratti, di commissioni di statue piccole e grandi, di mausolei funerari, di monumenti o di una produzione legata anche alla vita quotidiana dei più diversi committenti. “Omo senza lettere” come si definiva, in realtà Canova ha originato un epistolario immenso, a mano a mano che la sua fama cresceva e che le relazioni con amici, estimatori, collezionisti facoltosi e potenti lo hanno costretto a scrivere e a far scrivere, a ricevere, leggere e farsi leggere migliaia di missive sui più svariati argomenti: da quelli più strettamente legati agli affetti famigliari, alla professione, agli obblighi formali dei tanti incarichi pubblici che l’artista ricoprì. La maggior parte della vita la trascorse a Roma e dunque lontano dai luoghi nativi o dei primi lavori. La corrispondenza diventava pertanto indispensabile per i rapporti con i famigliari, gli amici di Bassano e Venezia.
I contatti epistolari
A ciò si aggiungono i contatti epistolari con i committenti e con l’enorme numero di persone con cui l’artista venne in contatto. “Se avessi parecchie mani – si legge nella lettera a un amico – tutte sarebbero impiegate”. Corrispondenza che mette non di rado in luce la personalità, il carattere, il buon cuore e la chiara intelligenza dello scultore Canova, massimo esponente del Neoclassicismo, considerato un “Nuovo Fidia” e l’ultimo grande genio di una gloriosa tradizione artistica dell’Italia ricercata in tutta l’Europa. Trattava lo scalpello a modo che i grandi pittori del Rinascimento trattavano il pennello. Una volta viste, restano incancellabili sculture in marmo bianchissimo quali Amore e Psiche, la Venere italica, Adone e Venere, Le tre Grazie, Teseo sul Minotauro, il Monumento funerario a Maria Cristina d’Austria, la Paolina Borghese, Ercole e Lica. Parte della sua produzione fu dedicata a celebrare Napoleone. L’imperatore fece di tutto per trattenerlo alla corte, ma lo spirito di libero artista traspare da lettere scritte ad amici in Italia: «Non crediate che io resti qui, che non mi vi tratterrei per tutto l’oro del mondo. Véggo troppo chiaro che vale più la mia libertà, la mia quiete, il mio studio, i miei amici, che tutti questi onori”. E valeva per lui anche un impegno pieno e totale nella scultura creativa. Ci vuol altro – scriveva a un amico – “che rubbare (sic) qua e là da pezzi antichi e raccozzarli assieme senza giudizio, per darsi valore di grande artista. Conviene studiare dì e notte su’ greci esemplari, investirsi del loro stile, mandarselo in mente, farsene uno proprio coll’aver sempre sott’occhio la bella natura con leggervi le stesse massime”.