Lettere nella storia: il testamento di Kurt Cobain

La lettera più tragica e rivelatrice, Kurt Cobain, cantautore e icona della Generazione X, l’ha scritta prima di morire suicida a 27 anni, il 5 aprile del 1994. Indirizzata a Boddah, suo amico immaginario fin dall’infanzia, destinata alla figlia Frances e alla moglie Courtney, famosa quanto lui. “Ti prego resisti Courtney, per Frances. Per la sua vita, che sarà molto più felice senza di me. VI AMO, VI AMO”. Questa la conclusione del testo: “Sono un bambino troppo incostante e lunatico! Non ho più passione, perciò ricordate, è meglio bruciare subito che spegnersi lentamente”. 

Riflessioni esistenziali

Era stato il leader dei Nirvana, considerato una leggenda della musica contemporanea, artista geniale con un posto di riguardo nella storia del rock, vittima, infine, dei suoi fantasmi e delle sue dipendenze come racconta lui stesso nei suoi taccuini farciti di poesie, lettere, schizzi, progetti per i Nirvana, riflessioni esistenziali. Raccolti in un volume postumo dal titolo complessivo Diari. I Rolling Stones lo hanno definito “Il libro sul rock più affascinante e straziante”. Il suo viaggio nella droga lo aveva svuotato. “Non provo eccitazione – si legge nella lettera stilata a Seattle, prima del fatale colpo di fucile – nell’ascoltare e nel creare musica o nel leggere e scrivere da troppi anni. Mi sento in colpa oltre ogni dire per queste cose. Per esempio, quando siamo nel backstage le luci si spengono e inizia il ruggito eccitato della folla, non mi fa lo stesso effetto che faceva a Freddie Mercury che sembrava amare, crogiolarsi nell’amore e nell’adorazione della folla che è qualcosa che io ammiro e invidio […] Devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. Sono troppo sensibile. Ho bisogno di essere leggermente insensibile per recuperare l’entusiasmo che avevo da bambino. Nei nostri ultimi tre tour, ho apprezzato molto di più tutte le persone che ho conosciuto personalmente, e come fan della nostra musica, ma non riesco a superare la frustrazione, il senso di colpa e l’empatia che ho per chiunque. C’è del buono in ognuno di noi e credo semplicemente di amare troppo le persone, così tanto che mi fa sentire fottutamente triste”. 

Cresciuti troppo in fretta

Un mese prima della fine, a Roma, aveva tentato il suicidio con pasticche mortifere, ma era stato soccorso in tempo e ricoverato in ospedale. L’appuntamento con la morte per lui, leggenda della musica contemporanea, valutato miglior artista degli anni Novanta, era solo rinviato di una manciata di giorni. E la sua morte – come quella di tanti giovani della sua Generazione X – fu lamentata ma non ripensata abbastanza dagli adulti che reggevano il mondo. Prima c’erano stati i Boomer, figli del Baby Boom, e dopo sarebbero seguiti i Millenials e ora si è alle prese con la Generazione Zeta. Nomi diversi per disegnare una condizione similare tra i giovani delle generazioni seguite alla Seconda Guerra Mondiale che in occidente hanno patito lo strabiliante rincorrersi del progresso scientifico sempre più rapido e travolgente. Con la fatica di adattarsi ai ritmi dell’economia e della tecnica sempre meno governate. Si è cresciuti troppo in fretta o troppo tardi, ma specialmente troppo soli, orfani chi più e chi meno della stima degli adulti occupati a far crescere il capitale piuttosto che il dialogo educativo tra genitori e figli, tra politica e bisogni reali legati al vivere e al morire quotidiano. 

Vivere senza speranza

Adulti meravigliati, spiazzati di fronte ai ragazzi e giovani classificati con segmenti di cultura fantasiosi: Boomer, Generazione X, Millenials, Generazione Z. Ma comunque tutti meno interessanti del denaro, della finanza, dei consumi. Giovani a cui – si dice – non si è fatto mancare nulla di materiale e che si sono ritrovati senza bussola orientativa per la vita. Con un futuro sempre più oscuro, indecifrabile. Vivere con la percezione di essere alla fine della storia, come orgogliosamente si pensava dopo la caduta del Muro di Berlino, ha diffuso l’illusione di poter vivere senza speranza. L’ultima lettera di Cobain appare un testamento esemplare di una gioventù vissuta con la sensazione di essere nata “per bruciare”. “Non posso sopportare – si legge nella lettera alludendo alla figlia – il pensiero che Frances diventi il miserabile, autodistruttivo rocker che sono diventato io. Mi è andata bene, molto bene e ne sono grato, ma da quando ho sette anni, sono diventato pieno di odio verso l’umanità in generale. Solo perché sembra così facile per la gente andare d’accordo. Solo perché amo e mi dispiace troppo per le persone probabilmente. Grazie a tutti dal profondo del mio bruciante nauseato stomaco per le vostre lettere e la preoccupazione negli anni passati […] Pace, amore, empatia”. Tre parole, emigrate lontane, vero grido d’aiuto che i giovani tramite Cobain, scrivono agli adulti e che, evidentemente, resta inascoltato.