Ovunque e in nessun luogo come il protagonista di un racconto di Gabriel Garcia Marquez. A Cagliari come in Italia, come nel mondo, una vita finisce e si trasfigura subito in mito, regalandoci il bagliore della sua aura.
Cagliari 7 novembre del 2022, teatro Massimo, ultima apparizione pubblica di Gigi Riva: il buio e l’attesa, l’enorme sala stipata fino al più remoto strapuntino, l’atmosfera dei grandi eventi. Fiati sospesi. Una voce, all’ultimo momento, serpeggiava tra le poltrone: “Gigi non viene! Non se l’è sentita”. La notizia suscitava dispiacere, ma non stupiva: da molto tempo Gigi Riva a Cagliari era una leggenda degna di un racconto sudamericano, un verso che “turbina e non appare” come direbbe Eugenio Montale. Gigi in città era in tutti i luoghi e in nessuno: faceva il nonno, combatteva da una vita con i demoni della depressione, non lo si vedeva in un evento pubblico da cinque anni, ovvero da un pomeriggio del febbraio del 2017, in cui i suoi ex compagni dello scudetto Rossoblù lo avevano accompagnato alla cerimonia in cui riceveva il collare d’oro da Giovanni Malagó. Uno stadio pieno, uno striscione affettuoso lo aveva fatto sorridere – “Come Gigi nessuno mai!”. Poi più nulla.
Due gambe alla patria
Pandemia. Al pari del suo ex compagno di stanza Ricky Albertosi, durante il periodo della pandemia Riva non era uscito un solo giorno di casa, e spiegava scherzando: “Io, finché questo schifo di virus non se ne va, le mie passeggiate le faccio in balcone, come i carcerati”. Tre sole volte aveva derogato quel comandamento auto imposto: per vaccinarsi e medicare gli effetti di un banale incidente domestico. I ragazzi d’acciaio degli anni Quaranta: sopravvivere prima di ogni altra cosa, sacrificarsi quanto serve, se possibile di più. Bisogna tuttavia ripensare a quale vita si celi, dietro quel sorriso: un ex bambino nato sul lago a Leggiuno nel 1944, un figlio due volte orfano, cresciuto poverissimo e ribelle tra istituti e collegi, adottato da una regione (e poi da una nazione) come un santo. “Ha dato due gambe alla patria” si dice, dopo due infortuni, uno dei quali gravissimo, (tibia e perone). Ma (ancora oggi) Riva è il più grande marcatore azzurro di tutti i tempi: l’uomo che per un concentrato di coerenza e rara cocciutaggine trasforma in leggenda il suo grande rifiuto: “Non vengo alla Juve né per un miliardo né per dieci”. L’avvocato Agnelli, non si era mai arreso. Ma invano. Era da anni – fino a quell’anteprima – che i curiosi e i turisti bene informati si affacciavano in un noto vicolo del centro, per contemplare il tavolino prediletto di Riva, al ristorante “Stella Maris”. É sempre apparecchiato per lui, coronato dalle sue foto: l’altare spoglio di un culto laico e minimale. Resterà così anche ora.
Le lacrime per Gigi
Lacrime. Ecco perché invece, quella, quando Gigi Riva si era materializzato al Massimo per vedere il suo film in anteprima, si era prodotto uno dei più indescrivibili e rari momenti di emozione collettiva: brividi, applausi, pestare di piedi, grida, mentre lui prendeva posto, accompagnato dai due splendidi figli Nicola e Mauro, e dalla stupenda compagna di una vita, Gianna Tofanari. Poi, ovviamente, le lacrime: quelle del pubblico. E infine anche le sue, rare, come nella bellissima canzone “avventista” del cantautore Piero Marras, quella che chiude il film di Milani con i suoi accordi malinconici e struggenti: “Quando Gigi Riva tornerà/ una grande festa si farà”. Adesso Gigi ci lascia, come un mito fragile e amatissimo, del suo amato De André.
Il romanzo del boom
Riccardo Milani, regista, è l’autore di una piccola impresa, aver portato il mito a reincarnarsi in se stesso, prima di lasciarci: “Sono entrato in casa d’altri, in punta di piedi, per raccontare una storia importante”. In quella casa, avvolto in una immancabile e coreografica nuvola di fumo, e un noto sorriso, abitava un uomo che con la sua vita teneva annodate la latitudine e la longitudine di un importante racconto italiano. Nel corpo di un’ottantenne quadrato, burbero dolcissimo e carismatico, infatti, convivevano tre diversi piani narrativi: l’autobiografia di una generazione nata fra bombe e macerie e arrivata al benessere. Un romanzo di formazione raro. E due linee che si intersecano in maniera indissolubile nel boom economico: la storia sarda e quella nazionale.
Gigi orfano
Prima immagine, l’infanzia: “Muore mio padre. Mia madre, che lavorava in filanda, – mi raccontò un giorno – va a pulire le scale per pagarmi il collegio. Finiva la mia infanzia felice in campagna, mi ritrovavo in carcere: la domenica arrivavano i signori da Milano per regalarci i giocattoli rotti dei loro figli, e ci chiedevano di ringraziarli, di cantare ai funerali dei benefattori, gente mai vista. Provavo rabbia”. E ancora: “Quanto ho odiato il collegio, l’umiliazione di essere poveri: camerate fredde, mangiare da schifo, dover dire sempre ‘grazie signora’, ‘grazie signore’, a chi ci portava pane e vestiti usati. Dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi”.
I Viaggi
Seconda immagine, la svolta della carriera. Il 17enne Riva viene venduto dal Legnano, dove viene scoperto e segnalato al Cagliari (da un carabiniere!) e mette piede nell’isola nel 1963: “Un volo infinito su un bimotore con le eliche sulle ali: non esisteva ancora un volo diretto, l’aereo partiva da Milano, scalo a Genova e Alghero. E lì – raccontava ridendo – chiesi: come si torna indietro?”. Sigaretta, nuvola di fumo: “Quando ripartimmo per Cagliari, un tragitto di pochi minuti, mi sembrò un tempo infinito, vidi delle fiamme lontano sulla costa dal finestrino, pensai: ‘Ma allora sto andando davvero in Africa!”. Era invece la ciminiera della Saras, la più grande raffineria europea, il primo atto che trasformava la Sardegna agropastorale in una regione moderna. Era la Saras che scelse di investire nel Cagliari di Riva. “Fuggo appena posso, penso”. Resterà tutta la vita. Il ragazzo esplode, inizia a segnare. Diventa eroe popolare, oggetto di desiderio del mercato (e della Juventus). La prima manifestazione popolare dell’infuocato anno 1968, a Cagliari non è né di studenti né di operai, ma un lungo corteo di popolo che si stringe dietro a uno striscione in via Roma: “Gigi non si tocca”. E dove sta proprio quel giorno il Giovan Gigi? Proprio lì. In via Roma. In un negozio: “Sentiamo le voci, vediamo la Celere, esco incuriosito. Sulla soglia urto conto una signora sarda alta un metro e mezzo. Chiedo scusa. Lei esplode: ‘Ma quale scusi e scusi! Vieni con noi: qui ci vogliono rubare a Gigirrivaaa!” Lui rimane turbato: “La signora non sapeva chi fossi, ma io per lei è gli altri ero un simbolo da difendere con unghie e denti. Un valore”. E dice di no.
Lo scudetto in rossoblù
Un’impresa Davide contro Golia. Impossibile vincere contro le grandi, sulla carta: e invece Gigi e i cuori Rossoblù, una società considerata di scarti, senza nemmeno le riserve: diventa (copyright Enzo Tortora) “la squadra simpatia” anche per chi non segue il calcio. Walter Chiari nello spogliatoio, Renzo Arbore telefona alla cena della festa: “Bravi!”. L’offerta Juve sale a due miliardi, il Cagliari vorrebbe vendere, ma Gigi testardo: “Io resto”. Il giorno dello scudetto, arriva la trasfigurazione in leggenda. Due latitanti arrestati in tribuna, per l’imprudenza di essere andati allo stadio, mentre sono trascinati in manette, implorano Riva: “Gigi! Gigi! Andremo in carcere, ma vogliamo vedere questa partita!”. Mancano pochi minuti alla sfida decisiva eppure lui, incredibilmente, ci si dedica: “Promettete di non scappare?”. E loro: “Promettiamo!”. Gigi si rivolge ai poliziotti: “Restate a vedere qui la partita qui? Vicino alla panchina, porterete fortuna”. Restano tutti, guardie e ladri: finiranno travolti dalla folla, negli spogliatoi. Sembra una favola agiografica, e invece ci sono le foto (e una copertina della Domenica del Corriere). Riva è ormai un re taumaturgo. Gianni Brera lo ribattezza: “Io qui ti proclamo Rombo di tuono!”
La leggenda in Messico
I campioni scudettati di Cagliari diventano l’ossatura (sette convocati) della Nazionale di Messico 70. E in più ci sono Rivera, Boninsegna, Mazzola, Burgnich. Vincono la leggendaria semifinale con la Germania per quattro a tre (un goal di Gigi). Si arrendono solo al Brasile id Pelé, in finale. Quando torna Riva è l’Italiano più celebre in patria (e al mondo). A Vienna, mentre è in azzurro un difensore austriaco – Norbert Hoff – gli spacca il piede con una entrata da killer. Un medico austriaco gli riduce la frattura, ma lui resta con la gamba destra più corta di tre centimetri: “Il piede posturale – spiegano i medici a Manlio Scopigno, il suo mister e padre adottivo – conta più di quello con cui tira. Tecnicamente è un giocatore finito”. Scopigno quella notte piange, disperato. Poi trova fa forza per rispondere alle ansie di Gigi. E per fortuna mente: “Tu il destro lo usi solo per salire sul tram!”. Incredibilmente, ancora una volta, Gigi, torna. L’ultima offerta della Juve è leggenda: due miliardi di allora, più sette giocatori (!) bianconeri a scelta. E ancora una volta Gigi impassibile: “Sto bene qui”. Si sentirà, con “il signor Fiat”, anni dopo, quando un amico glielo passa al telefono: “Avvocato, come sta?”. Agnelli, sospira: “Riva! Avrei voluto fare questa conversazione trent’anni fa. Ora è tardi, persino per me”. Ritrova anche Hoff, in nazionale. Quello gli porge la mano. Gigi la stringe. Stupore. Lui mi spiegò: “Nel calcio, come nella vita, si prendono e si danno: chi si fa guidare dal rancore non va da nessuna parte”.
Gli amori di Riva
Riva finirà su tutti i rotocalchi perché Gianna è una donna sposata, che viene denunciata dal marito. Rischiano entrambi il carcere, ma per fortuna viene approvata la legge sul divorzio. Un altro brutto infortunio mette fine alla carriera, nel 1976. Dalla sua compagna avrà due figli sardi, diventa l’accompagnatore della Nazionale che vince in mondiale del 2006, “scese col suo trolley nella sera della festa – racconta Francesco Totti – perché sul torpedone scoperto che percorreva Roma volevano salire chi che aveva definito noi azzurri ‘una squadra di perdenti’”. Ecco, anche un bel film di Riccardo Milani su Gigi Riva ha raccontato tutto questo: balli sardi, spiagge, sogni, Raffaella Carrà che gli dedica una canzone sensuale e allusiva nella Rai in bianco e nero, pupazzetti e gadget, un viaggio nel come eravamo e forse, nel come saremo. La sera della prima, l’uomo che non era uscito di casa per due anni, si affaccia alla porta dello Stella Maris, guarda il proprietario e sorride: “Giacomo, per caso avete un tavolo libero?”. Resta a cena lì, con la sua famiglia e i suoi compagni, come se il tempo non fosse passato. Quando Gigi tornerà (di nuovo) capiremo di essere solo nani, sulle spalle dei giganti.
La lezione di Riva
Solo quando si perde davvero, si capisce fino in fondo il valore di ciò a cui rinunciamo per sempre. E in queste ore, l’enorme onda di emozione che attraversa il Paese unisce chi ha sempre amato Gigi a chi – soprattutto i giovanissimi – lo scopre solo adesso. Non perdiamo solo un campione, non solo un uomo straordinario, ma uno degli ultimi del tempo dei giganti, il simbolo di una generazione italiana. I cuori Rossoblù dello scudetto venivano dalla polvere. Dalle province e dalle periferie del paese. Angelo Domenghini da bambino portava brocche al tavolo dell’osteria paterna, da ragazzo era diventato operaio. Beppe Tomasini lavorava in fonderia, tra i vapori della colata. “Riccio” Greatti porta ancora con orgoglio, sul labbro una cicatrice di coltellaccio di macellaio, guadagnata da piccolo, disossando nella bottega paterna. Adriano Reginato era in cartiera a lavorare quando si era ammalato il padre, per campare la famiglia. Comunardo Niccolai, magazziniere a Sassari, Corrado Nastasio, l’unica riserva “innamorato” del suo titolare, partito a scaricare casse, portuale a Livorno. Gli unici due che “stavano bene di famiglia”: l’indimenticabile capitan “Piero” Cera, che però litigava con un padre “borghese”, direttore di banca, convinto che il calcio lo “rovinasse”. E il dolcissimo Bobo Gori un giorno mi disse: “Io, figlio di un emigrante diventato ristoratore di successo, ammiravo la loro forza, imparavo da loro”. Ricky Albertosi, figlio d’arte del portiere del Livorno mi raccontò: “Volevo fare il grande salto, pensa, mi immaginano maestro elementare”. Cesare Poli serviva gazzose e panini al bar di famiglia, durante la pausa mensa della fabbrica di fronte. Mario Martiradonna era figlio di una umile e prolifica famiglia pugliese. Un giorno, quando Riva annunciò alla squadra che rifiutava la Juve fece esplodere lo spogliatoio dicendo: “Meno male, Gigi: io devo ancora finire di pagare la cucina!”.
Affamati di vita
Nati sotto le bombe, durante o dopo la guerra. Tutti affamati, come Gigi, di vita. Avevano traversato il ferro e il fuoco, alcuni di loro cercando il calcio come strumento di emancipazione. I più “vecchi” erano nati tra il 1937 (Regi) e il 1939 (Ricky), e il 1946 (il gruppo dei quattro più giovani), nati con la Costituente. Tre di loro tre orfani: i due terzini, Eraldo Mancin e Giulio Zignoli, detto “il pretino”, (perché i comboniani, per sfamarlo l’avevano preso in seminario). Orfano di padre anche mister Scopigno. E Riva era la quintessenza di questa autobiografia di una nazione che si rimetteva in piedi dopo la guerra: nato nel ‘44, quando l’Italia era una trincea, lombardo di lago o a Leggiuno, due volte orfano, una sorella morta giovane (“di stenti”), quando in ospedale si pagava la degenza. un padre trafitto da un ingranaggio fabbrica, una madre persa prima dei 18 anni. Era un concentrato di dolore e rabbia, ma anche una bomba di speranza e passione. Un esercito di “migranti economici” in Sardegna: toscani, lombardi, veneti, friulani. Nessuno era sardo, e quasi tutti lo diventarono. E Gigi: “Non essendo sardi, abbiamo scelto di esserlo”. Assomigliavano tutti agli italiani che si innamorarono di loro, e di Gigi. Partiti dal nulla, ma arrivati ovunque, insieme, nell’Italia del boom: consumi, del benessere, rivoluzione sessuale, diritti, canzonette, vespe, lambrette, ombrelloni al mare. È stata l’ultima volta che chi tifava somigliava a chi giocava. Chi li aveva spediti in Sardegna credendoli – per i motivi più diversi “scarti” – finì per maledire se stesso. Ecco perché nessuno di loro perse la testa, dopo il calcio. Ecco perché quei ragazzi sono stati gli ultimi italiani che hanno preso l’ascensore sociale in questo paese. Ed ecco perché il Gigi che amo è un sorriso in una nuvola di fumo, nella poltrona di casa: “Bene, ti dicevo delle pulsantiere. Entravo in fabbrica, finivo il lavoro, poi scappavo anche da lì, saltando un muro. Arrivano i primi soldi, i goal, il benessere, l’amore di una città. Poi la nazionale, i più begli alberghi del mondo, Parigi, Londra, Berlino. Ma ogni mi volta che entravo in un palazzo, quando salivo, guardando la pulsantiera nell’ascensore, mi ricordavo da dove venivo. Pensavo a mia madre che non si era goduta nulla, a mio padre morto, a mia sorella, che non c ‘era più. Ed è così che, anche se apparentemente continuavo a salire in alto – sospirava Gigi – sono sempre rimasto con i piedi ben piantati per terra”. Raccontatelo nelle scuole, ai ragazzi di oggi.