A prima vista vi sembrerà strano, ma questo è un museo. Forse vi sembrerà un po’ sorprendente, e forse persino buffo, ma quella che vi racconto è la storia di uno splendido museo a cielo aperto, nato su iniziativa di Poste, dilatato nello spazio e nel tempo in giro per l’Italia. È la sorprendente pinacoteca di una galleria italiana: unica, rara, incredibile e – anche – terribilmente contemporanea. Per poter entrare in questo museo non si paga nessun biglietto. Per poter esporre in questo spazio speciale non bisogna essere artisti consacrati, non servono il favore di un gallerista, la raccomandazione di un direttore, e nemmeno la benedizione di un critico. Per poterlo visitare – questo museo – è necessario fare un giro d’Italia, un viaggio nella bellezza di una manciata di piccoli-grandi comuni che hanno messo a disposizione i muri dei loro edifici postali per una bellissima rassegna di street art.

Fantasia e libertà

È un museo murale, tutto particolare, quello che voglio provare a descrivere, che è diviso in quattordici piccoli comuni, da nord a sud, al mare o in montagna, sulla dorsale adriatica e su quella tirrenica, all’insegna della difformità e della fantasia: geometrie pop ad Arsoli, uccelli tropicali a Baranello, carte geografiche a fumetti a Borghetto Santo Spirito, colori psichedelici e fluo a Calitri, realismo magico a Casola Valsenio. E ancora: sogni spaziali (animati) a Castellazzo Bormida, ecologia figurativa a Cineto Romano, visioni surrealistiche a Delianuova, primi piani antropomorfici e paracubisti a Gambassi Terme, bicromie decorative a Lentiai. E infine: arcobaleni onirici a Orgosolo, astrattismo a Sogliano Cavour, fantasie ecopostali a Villafrati. Ce n’è per tutti i gusti. Non c’è un filo conduttore stilistico comune, in questa particolarissima galleria d’arte, se non quello della libertà. Non ci sono stati vincoli agli artisti, di nessun tipo, se non quello degli spazi fisici. Il progetto è stato ribattezzato P.A.I.N.T., con un acronimo che è anche un gioco di parole: voce del verbo dipingere, tempo infinito, uffici postali come tele, gli edifici delle fogge più disparate trasformate in fondale dell’opera.

L’Italia che si rinnova

Se guardi sotto questi murales, se incidi l’intonaco con un coltellino per scoprire cosa c’è sotto, trovi ancora le tracce di una architettura variopinta e frastagliata, la mappa di questa nostra tormentata storia edilizia repubblicana: sotto la coltre mimetica dei colori ci sono tutte le possibili intelaiature del cemento armato, la spina dorsale che è stata insieme la materia prima e l’arma povera dell’Italia del boom. Sotto il manto lucido delle vernici acriliche ci sono i portici, gli infissi, le vetrature degli anni Cinquanta e Sessanta, ci sono le tracce dello sperimentalismo architettonico di un tempo lontano, le stigmate del secolo Novecento, figlie dell’ottimismo di un paese giovane che – all’epoca – cresceva troppo veloce, e che oggi è invecchiato troppo presto. In questo campionario di architetture post-moderne (talvolta deliziose, talvolta ardite, e in alcuni casi – diciamolo – decisamente orride) Poste ha avuto la bella idea di trapiantare il talento come medicina contro il degrado. La fantasia come antidoto all’oblio, la bellezza come balsamo contro l’implacabile opera di corrosione del tempo. Su muri decaduti, scoloriti e talvolta persino scrostati, si sono arrampicate scale e pennelli, e sono arrivate l’onda d’urto dell’arte e la febbre cromatica dell’avanguardia. E così, al vecchio racconto un po’ crepuscolare, ai sedimenti scalcinati dell’Italia della ruggine, si è aggiunto un nuovo capitolo, quello tutto contemporaneo della modernità digitale che è il filo conduttore di questo racconto per immagini: è in questo modo che la rivoluzione delle nuove comunicazioni, l’identità umana e il legame con il territorio sono diventati il soggetto della nuova rappresentazione, l’Italia del presente che rifà il trucco all’Italia del passato.

Custodi della bellezza

E allora benvenuti nel museo più piccolo, o più grande d’Italia, un museo murale che tiene insieme il Paese: il più piccolo e il più grande allo stesso tempo, il più colorato e il più festoso. Anche questo è un modo per celebrare degnamente la ricchezza e la varietà dei piccoli comuni. Non si paga biglietto, non si deve bussare alla porta, non ci sono custodi, non ci sono limiti. Poste ha scelto di diventare il gallerista del tempo presente, il contenitore del servizio e allo stesso tempo il supporto dell’opera. È una nouvelle vague, un format che parte dai piccoli comuni ma che si esporta anche fuori da questi frastagliati confini. E infatti a Sulmona l’Ufficio Postale si è fatto monumento memoriale per ospitare il ricordo di Fabrizia Di Lorenzo, vittima dell’orrore nell’attentato di Berlino del dicembre 2016. Adesso vorrei che nell’ultima sala di questa pinacoteca senza confini ci fermassimo per un attimo in silenzio, intenti a pensare: Fabrizia era figlia di Gaetano, dipendente di Poste nella cittadina abruzzese. Amava l’ambiente, la vita, gli altri. Era passata centinaia di volte davanti a quelle inconfondibili cassette delle lettere di acciaio rosso – la meta amica di tante passeggiate, le bocche di fuoco della catena alimentare postale – che per lei erano un simbolo familiare, la porta dell’ufficio di suo padre. Fermiamoci per qualche istante davanti a quest’ultimo quadro dell’esposizione: dopo l’inconfondibile paletta gialla e blu dell’insegna, infatti, c’è il grande affresco della memoria simbolica, l’immagine della bimba che tiene in mano l’uccellino. Siamo tutti in quelle mani, e siamo tutti anche nello sguardo protettivo di quella bimba. Mi piace pensare che questo murale possa trasmettere a ognuno di noi la memoria di Fabrizia e insieme una lezione: siamo tutti compresi insieme a Fabrizia nella geometria segreta di questo muro, un pugno di centimetri che racchiudono un messaggio: siamo allo stesso tempo figli della bellezza e custodi della bellezza. Siamo tutti grandi perché siamo stati piccoli.

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