Roma, 24 ott – Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019, presentato oggi a Roma alla presenza del ministro per il Sud e la Coesione sociale Giuseppe Provenzano, conserva la struttura degli ultimi anni ma introduce una novità sostanziale: il tema dello Speciale 2019 – Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all’amore per il made in Italy – è presente in ogni sezione, un filo conduttore che permea tutto il volume. Dopo aver dedicato le ultime edizioni ai territori regionali di partenza, alle città di approdo, ai principali paesi di destinazione della neo-mobilità giovanile italiana, la Redazione ha voluto interrogarsi e riflettere su un tema fondante della mobilità italiana: la percezione e la conseguente creazione di stereotipi e pregiudizi che hanno accompagnato il migrante italiano nel tempo e in ogni luogo.
Il rapporto elaborato dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana ricorda che gli italiani si rifugiavano in Europa o oltreoceano perché fuggivano dalla fame, dalla guerra, dall’ignoranza, ma nelle terre dove arrivarono non vennero accolti, ma sopportati a fatica e tacciati con stereotipi infamanti, per cui la loro povertà è diventata sinonimo di ignoranza, di sporcizia, di abitudini vicine a quelle degli animali. Imbroglioni, ladri, venditori di bambini, criminali spietati, organizzatori di prostituzione femminile e infantile, sfruttatori, “diversi”, “non visibilmente negri”, a tal punto che furono “create” due razze all’interno della stessa Italia. Nel Dictionary of Races or Peoples del 1907 alla voce “italiani” si legge: “Fisicamente gli Italiani sono tutt’altro che una razza omogenea”. L’antropologo Alfredo Niceforo nello stesso periodo pubblica una sorta di “fisiologia dell’Italia meridionale”, sostenendo l’esistenza nel Meridione di Italia di popoli primitivi, diversi nelle caratteristiche fisiche, nel colore della pelle, nell’altezza, nella forma del viso e portatori di una civiltà barbara. E se, sempre a detta dello studioso, la gente del Sud è impulsiva e facilmente eccitabile, poco adattabile, quelli del Nord sono freddi e riflessivi, pazienti e pratici, più capaci nell’organizzazione e nel progresso.
Fa specie pensare come tutto parta da una cosa semplice ma che ha risvolti fondamentali: l’uso che si fa delle parole. Tullio De Mauro le ha definite “parole per ferire” in una lunga e complessa ricostruzione realizzata nel luglio del 2017, per la Commissione “Jo Cox” sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio. Ne emerge un variegato e articolato mondo legato alle hate words, a quei termini, cioè, che provocano dolore nell’altro perché sono offensivi e dispregiativi.
I vari saggi della quattordicesima edizione del Rapporto Italiani nel Mondo narrano ulteriori pagine di storia: di come cioè in alcuni contesti gli italiani si sono presi la loro rivalsa diventando protagonisti e fautori del bello, soggetti attivi di positività, leader da imitare e non solo perché qualche migrante è venuto dopo, come spesso purtroppo capita, diventando oggetto di scherno al posto loro. Attraverso il duro lavoro, dimostrando capacità e doti, genialità e creatività, cultura oltre la mancanza di titoli di studio e il non saper leggere o scrivere, gli italiani nel mondo hanno trovato, a costo di tanto sacrificio, un loro posto di rispetto, ma dimenticano, a volte, purtroppo, quanta fatica e sofferenza se non direttamente per loro, ma sicuramente per le loro famiglie e i loro cari, è costato arrivarvi.
Ripensare e rileggere quando eravamo noi oggetto di hate speech alla luce dell’Italia di oggi fa un certo effetto, sottolinea Migrantes nel rapporto. Significa guardarsi allo specchio e rivedere la propria immagine con il volto di un altro (albanese, algerino, nigeriano, cinese, ecc.), ma provare lo stesso sgomento, la stessa sofferenza e l’eguale desiderio di riscatto.
La lunga disamina realizzata per contesti geografici e temi portanti (lavoro, lingua, musica, cinema, fumetti, religiosità, ecc.), fatta di momenti di cesura, di avversione, ma allo stesso tempo di accettazione e apprezzamento, ci consegna una lezione valevole per tutti i paesi e i contesti territoriali, che è quella della necessità di affrontare la questione della convivenza tra persone con tutti gli strumenti possibili, economici, culturali e sociali affinché si abbia sempre la forza della memoria. Occorre avere il coraggio e la tenacia di ricordare che nulla è avvenuto per caso e che la convivenza e la comprensione vanno alimentate quotidianamente con l’esempio e con la storia.