La conversazione con Ascanio Celestini, che incontro in una sala di registrazione a Roma nel quartiere Flaminio, diventa subito un parlatorio ininterrotto, un racconto orale simile a quelli ai quali ci ha abituato uno dei nostri maggiori attori- narratori del teatro italiano. L’autore di spettacoli come “Radio clandestina”, “Fabbrica”, “Scemo di guerra”, “La pecora nera”, di libri come “Lotta di classe”, “L’Armata dei Senzatetto” (Contrasto) e “Barzellette” (Einaudi), parla del suo rapporto con la corrispondenza: “Faccio parte di una generazione che ha scritto poco, le lettere che ho scritto una l’ho inviata a una ragazzina che avevo conosciuto in gita, alla mia fidanzata che poi è diventata mia moglie, poco altro”, ma se pensa a quelle più intense sono quelle che ha trovato lavorando, dice, “nella lettera c’è una scrittura a me congeniale, non è una via di mezzo tra la parola scritta e la parola detta, le tiene insieme tutte e due”. E come? “Quando scriviamo una lettera, oggi meno, ma anche le mail, i messaggini, vuoi proprio che arrivino le parole, far arrivare la voce, quindi non la parola scritta ma direttamente la voce, c’è la volontà di lasciare una traccia fisica”. Corporale, aggiungo, che arrivi quasi il profumo, l’odore della persona. “Una cosa molto letteraria, quasi carnale, come scrittori usiamo la parola cercando il più possibile di avvicinare la parola alle cose, che le cose siano evocate e la parola quasi scompaia, chi scrive una lettera vuole far arrivare proprio questo”.
Le lettere dei minatori
Come le lettere della prima grande guerra, dove “il soldato cerca di far sentire il freddo, qualcosa di molto fisico”. Adesso ricorda le corrispondenze dei minatori che lesse quando stava scrivendo “Fabbrica”, mentre discute salta di palo in frasca, mi racconta di “Laika”, “che parla di un barbone ma all’inizio doveva intitolarsi ‘Guernica’ e del bombardamento durante la guerra civile spagnola”, questo per farmi capire come lavora, “doveva essere prima i racconti dei contadini, passare per la miniera e poi alla fabbrica, ho intervistato tante donne e uomini emiliani, e a un certo punto trovo queste lettere dei minatori del Monte Amiata, lavoravo al testo su diversi piani generazionali dove mescolavo anche repertori della tradizione popolare”. E le lettere dei minatori? Lo incalzo. “Trovo la lettera di un minatore scritta nel 1919 alla madre, che mi è servita come struttura, in questa lettera c’era proprio la voglia di comunicare quello che gli stava succedendo, le fatiche, la vita difficile, che rimanesse come un ricordo postumo, e lì ho capito che il racconto doveva essere una lettera, e siccome faccio un teatro molto parlato, la lettera è una scrittura molto parlata”.
Descrivere la follia
Poi racconta di uno al quale stava morendo il padre e gli scrive che sarebbe dovuto andare a conoscerlo, e un pizzicagnolo dalla Liguria che rifà salumi e formaggi scomparsi, intervistando prima i vecchi che ne hanno memoria, poi Ascanio prende a parlare della follia, del disagio mentale, spiazzandomi. Non capisco dove vuole arrivare. “Il disagio è la nostra normalità, solo a un livello più pericoloso”. Comincia a parlarmi di una ambasciata romana dove arrivavano lettere di folli, un pacco di lettere che gli consegnarono ai tempi de “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico”, quelle di un uomo che scriveva dall’estero missive al curaro contro sua moglie, rea di averlo reso infelice, “lettere lunghissime, assurde” dice, “missive velenosissime, spedite chissà perché in un posto assurdo e lontanissimo”.