Se viviamo cercando luce nella notte, siamo un po’ tutti Pier Paolo Pasolini, autore impetuoso e artista sorprendente, profeta enigmatico nel suo tempo. Di un Pasolini ci sarebbe bisogno anche oggi. Dalle sue ceneri guizza ancora fuoco ardente di un pensiero mai rassegnato alle evidenze banali di una realtà sociale, matrigna per gran parte degli umani. Lo svelamento del mistero in chiaroscuro di Pasolini sta in buona parte nelle sue Lettere. La sua vasta corrispondenza privata e pubblica sprizza lampi su un personaggio davvero complesso, emblema dell’inquietudine umana, impastata di grandezza e miseria.
La contraddizione tra bene e male
Le sue Lettere disseminate di invettive e tenerezze, trasformano in arte le situazioni più ovvie dell’esistenza perché Pasolini non è mai stato indifferente all’umano. Prigioniero – come tutti – di orgoglio e pregiudizio, ha portato tempesta in ogni ambito di stagnante umanità. E nella sua persona ha consumato la contraddizione tra bene e male in misura esagerata. Una vita smodata di sentimenti, lotta interiore, ricerca di pacificazione incerta tra istinto e ragione. Genio della lampada, oggetto di odio e amore in vita e in morte. Dell’artista assassinato ne ha avuto pietà, non ipocrita né partigiana, David Maria Turoldo, un prete poeta, friulano contestatore suo pari delle disparità e dell’indifferenza. Una lettera di Turoldo alla mamma di Pier Paolo, letta al funerale del figlio, ci restituisce il ritratto più vero di Pasolini. Nella quiete della nativa Casarsa, quel corpo martoriato e offeso da inaudita violenza, sembrava ritrovare la serenità della prima infanzia, lontana dal turbine della città che stritolava la speranza dei poveri e dei ragazzi di vita che Pasolini aveva reso icone letterarie.
Il ricordo di Turoldo
Pierpaolo, scriveva Turoldo, “ha tanto bisogno di te, mamma; come l’ha sempre avuto lungo tutta la sua martoriata vita: una vita di povero friulano, solo, senza patria e senza pace. E tutti lo devono dire che era così buono, fino al tormento, fino a distruggersi con le sue mani. Ed era così bisognoso di amicizia, come appunto è il mio Friuli, così solo. E gridava ai quattro venti le sue contraddizioni e i suoi peccati…un figlio tanto fortunato e sfortunato insieme; un figlio divorato dalla stessa vita che tu gli hai dato: una vita rovinata dalla troppa umanità”. Alle Lettere affida il disagio intimo a vivere una vita popolata più da “caporali che da uomini”. Di qui una sete quasi mistica di dialogare con la figura del Cristo, suo specchio segreto ove guardarsi e misurare la fatica di essere uomo. Rovente di mistero è la corrispondenza intorno al suo film Il Vangelo secondo Matteo del 1964 che lasciò attoniti credenti e non credenti. Un prete non sarebbe stato capace di raccontarlo come lui, cosciente della sua condizione di pubblicano.
Il carteggio con don Giovanni Rossi
“Sono bloccato”, caro don Giovanni, – si legge nel carteggio con don Giovanni Rossi fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi e suo consulente per il film – in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio”.