Paolo VI voleva farlo cardinale. Romano Guardini, tra i precursori del concilio Vaticano II, rifiutò. Erano gli ultimi anni di vita di questo “solitario teologo” che ha vissuto il Novecento alla maniera di Dante “facendo parte per se stesso”, ma umanista cristiano anticipatore di questioni delicate per l’uomo e per la fede. Non catalogabile in alcuna delle correnti teologiche del secolo XX ha dato un personale contributo ai vivaci tentativi di superare la tragicità di due grandi guerre e rispondere alla sfida della secolarizzazione che sembrava dar ragione al proclama di Nietzsche: Dio è morto. Si deve a due raccolte di Lettere – mai considerate tra le opere maggiori – il Guardini anticipatore di pensiero teologico sul rapporto tra l’uomo e la tecnica che pareva scompaginare la cultura classica e la serenità del mondo sperimentato come natura. Guardini con “Lettere dal Lago di Como-L’uomo e la tecnica” iniziò a interessarsi al tema, cruciale ancora oggi, a metà degli Anni Venti. E lo riprese negli ultimi anni di vita, in parallelo con lo svolgimento del concilio Vaticano II (1963-65) che apriva un’era nuova nei rapporti della Chiesa con la modernità e il mondo contemporaneo. Nelle “Lettere teologiche a un amico” elaborate negli intervalli di malattia e affidate a un compagno di scuola riemergono intuizioni nuove sul rapporto Dio-mondo filtrato più dalla speranza che dal timore. Era il Sì del teologo al proprio tempo, superando la tentazione nostalgica del passato. Le 10 lettere furono pubblicate da Vita e Pensiero alcuni anni dopo la sua morte avvenuta nel 1968. Se le 9 Lettere dal Lago di Como furono un tentativo speculativo di ridefinire il rapporto fra spiritualità e mondanità sconvolto dall’irruzione della tecnica moderna con la sua ambivalenza trasformativa della città dell’uomo, nelle Lettere teologiche a un amico Guardini lascia in eredità alla teologia di ripensare in termini nuovi Dio e l’uomo non più considerati in conflitto o concorrenti a tal punto che il cristiano debba rifiutare la modernità.

Dio è amore

Se Dio è amore. È l’inizio della riflessione dominante le ultime Lettere. Un’asserzione che richiede di adeguarvi pensiero e vita cristiana, una mutazione delle tradizionali categorie nel parlare di Dio, dell’uomo e della storia. È Dio stesso a rivelarsi come amore non una conquista della tecno-scienza. E se Dio è tale e non altro, l’uomo è chiamato a registrare tutta la sua comprensione e il suo rapporto con il mondo inteso come cosmo e come storia in chiave di amore. Non competizione tra Dio e l’uomo, non negazione, ma incontro, convergenza confidente perché entrambi – finito e infinito – stanno dalla stessa parte. Nell’amore di Dio, l’uomo – con la tecnica sempre più signore della natura – riesce in qualche modo a superare i suoi limiti segnati dal dolore, dall’angoscia, dalla morte. E anche il rapporto con l’altro viene garantito dalla fratellanza. Cade la categoria del nemico; la Terra va curata e rispettata; il mondo come storia deve essere invece abitato dalla speranza. Con Dio dalla sua parte finisce per l’uomo la sua solitudine esistenziale nell’universo. E la vita è un cammino di ritorno alla casa paterna anziché un percorso infelice verso l’annientamento. Ottimismo e pessimismo sono entrambi insufficienti. Per l’esistenza umana importa la disponibilità a fidarsi di Dio radicalmente benevolo verso l’uomo.