Le statistiche dell’ultimo decennio mostrano un’Italia in cui, mentre le nascite sono calate di un quarto, gli ultranovantenni sono raddoppiati e la popolazione in età attiva si è ridotta di quasi un milione e mezzo di persone. Negli ultimi sei anni è diminuito di un milione anche il totale dei residenti. L’Istat ha detto che questa tendenza si può invertire se nei confronti della natalità si crea un contesto culturale e normativo amichevole. Ci sono riusciti Paesi che avevano un problema demografico analogo al nostro come la Germania, la Polonia o l’Ungheria. Una cultura amichevole è quella che si propone di conciliare la maternità – e la paternità – con il diritto al lavoro; perché il lavoro è a sua volta il presupposto per mettere al mondo un figlio, come spiega Gaetano, dipendente a Mantova, che ringrazia Poste per avergli “permesso” di realizzare il sogno del secondo figlio.
Il gap tra uomini e donne
Sulla penalizzazione delle donne nel mercato del lavoro italiano ci sono molti dati. Il primo riguarda il tasso di occupazione, che oscilla attorno al 50%, decimale più decimale meno: va così da diversi anni e ogni variazione è accompagnata da previsioni che le successive rilevazioni statistiche si incaricano di smentire. Ultimamente va un po’ meglio, ma il divario occupazionale con gli uomini resta di circa 17 punti percentuali. È più o meno delle stesse dimensioni la distanza che ci separa dal tasso di occupazione femminile nella Ue. Lo svantaggio delle donne italiane, pur riguardando anche quelle senza figli, è particolarmente forte per le madri: il numero di donne che escono dal mercato del lavoro in seguito alla nascita di un figlio oscilla tra il 20 e il 25%. Il problema è che nella maggior parte dei casi l’interruzione della carriera lavorativa delle madri non è temporanea come accade in altri paesi occidentali – Germania, Regno Unito o Stati Uniti – ma permanente. Si potrebbe pensare che questo quadro tenda a migliorare per le giovani generazioni, ma le analisi degli ultimi dati disponibili suggeriscono piuttosto che la situazione stia ulteriormente peggiorando.
Lo scoglio del lavoro
I sociologi danno tre spiegazioni per questa crescente difficoltà a conciliare famiglia e lavoro: la prima è la scarsa partecipazione maschile nelle faccende domestiche; la seconda è l’insufficiente supporto pubblico alla famiglia; la terza è la precarizzazione e la rigidità dei rapporti di lavoro, che privano milioni di donne delle misure di protezione della maternità. Ma mentre sul piano della partecipazione maschile alla gestione della famiglia si registra qualche passo avanti, perché risulta in aumento il tempo che i padri dedicano ai figli; e anche nelle politiche governative, con l’assegno unico, qualcosa si è fatto sul fronte dei trasferimenti monetari alle famiglie; la precarietà dei contratti e la rigidità delle politiche aziendali restano un ostacolo spesso insormontabile e spiegano perché per molte donne diventare mamma significa perdere il lavoro o non trovarlo, cosa ormai inconcepibile negli altri Paesi industrializzati.
Il ruolo delle aziende come Poste
Hanno dunque un importante valore le politiche aziendali a favore della genitorialità, soprattutto quando vengono proposte e attuate da aziende che hanno un ruolo sistemico, come nel caso di Poste Italiane. Nel corso del 2022 il Gruppo ha approvato una policy di sostegno della genitorialità attiva, con l’obiettivo di creare un programma personalizzato di welfare in base al profilo professionale e alle esigenze dei dipendenti con figli. Il progetto fa da cornice a diverse iniziative concrete. Una – “Mums At Work” – offre programmi di coaching aziendale per sostenere le donne in fase di rientro dal congedo per maternità. Le neomamme sono supportate per circa quattro mesi da coach interni all’Azienda che le aiutano a conciliare le nuove esigenze familiari e il ritorno alle proprie mansioni. Sono previste anche agevolazioni per quanto riguarda il luogo di lavoro, così da eliminare o ridurre al minimo il pendolarismo.
Invito all’autostima
Per chi ha bambini piccoli è stata introdotta la possibilità di incrementare il numero di giorni in smart working. L’anno scorso circa 900 persone hanno usufruito di “Maternity As A Master”, un programma che, attraverso una serie di corsi e seminari, mira a ridefinire la maternità come un prezioso periodo di apprendimento (proprio come un Master). Periodo in cui si acquisiscono alcune particolari competenze, utili anche nel mondo del lavoro – come migliori capacità relazionali, empatia, capacità di ascolto, competenze organizzative e di multitasking e una migliore gestione del tempo. Centinaia di genitori hanno poi partecipato a iniziative di “self discovery” realizzate in collaborazione con la Kellogg School of Management della Northwestern University di Chicago. Un invito all’autostima, uno strumento di aggiornamento, un modo per sentirsi in campo come e più di prima. Anche di queste cose è fatta la cultura della natalità.