Roberto Mancini e Gabriele Oriali sul volo che ha riportato l'Italia (e la Coppa) a Roma

Ci sono due cose che ci hanno fatto vincere. La Grande Bellezza e l’Amicizia. Noi nel calcio non siamo mai stati belli. Noi siamo sempre stati quelli brutti sporchi e cattivi che vincono in trincea. Poi è arrivato lui, Roberto Mancini, l’uomo più chic del nostro football, e badate bene, non snob, ma proprio chic, così elegante, raffinato, il suo ciuffo bianco come Aldo Moro, quel sorriso stentato e niente di più perché ridere può offendere gli altri, mai una goccia di sudore pure quando giocava e cercava soluzioni magiche, dei corridoi nascosti che nessuno poteva vedere, una luce da accendere, un miraggio qualsiasi per inseguire già allora la bellezza dell’imponderabile. Anche Arrigo Sacchi ha parlato tanto di bellezza, ma la sua nazionale giocava male – veramente male – e non vinceva niente. Il Mancio ci ha fatto belli e coraggiosi, una squadra che prende in mano la partita, che la comanda, che cerca nel talento la ragione di una vittoria, e nella fratellanza, nella vicinanza degli amici, la forza per ottenerla.

Valori comuni

Per questo oggi non c’è un uomo immagine migliore di lui, un personaggio che incarna anche il valore più importante di Poste Italiane e la sua identità, quello dell’aiuto da dare agli altri, del supporto continuo in qualsiasi cosa tu debba fare. Lo spot che lo racconta in una giornata qualunque, in accappatoio appena sveglio, in tuta mentre corre, in giacca e cravatta e poi con una maglietta seduto al bar accanto all’uomo delle Poste che non lo lascia mai, «bella sciarpa», è andato in onda per la prima volta l’11 giugno, proprio il giorno in cui era cominciato questo viaggio che si è chiuso a Wembley, alzando la Coppa e stringendo Gianluca Vialli in quell’abbraccio che dice tutto, mischiando le loro lacrime, i loro ricordi, il senso inestricabile di quello che stava succedendo, perché c’è sempre qualcosa di faticoso e dolente che rende più grande la felicità.

Custodi di grandi imprese

Lui alla fine l’ha detto, che quella amicizia fra lui e Vialli è più grande di tutto, e che è stata proprio l’Amicizia, quella del gruppo, di tutti i giocatori, il segreto del nostro successo. In un altro spot di Poste Delivery, Mancini ha prestato la sua voce, una voce impostata, da vero attore, per accompagnare il viaggio di un pacco che si carica scena dopo scena delle emozioni e dei ricordi della sua infanzia: “Perché un pacco custodisce molto di più di quello che c’è dentro”. Anche tutte le grandi imprese dicono molto di più, tutte le grandi storie, come quella della sua Sampdoria, resuscitata qui, nel tempio di Wembley, proprio dove aveva chiuso il suo ciclo, senza aver sprecato le sue occasioni, ma rincantucciata alla fine, anche con grazia, dentro a una sconfitta e all’addio, alla morte del sogno. Eppure, quando tutto era cominciato, il Mancio, arrivando a Genova, un lampo giallo al parabrise e quel mare scuro che non si ferma mai, aveva detto “ma come fa la gente a vivere in una città del genere?”, con la schiena schiacciata dalle montagne. Solo che poi era diventato il pupillo di Mantovani e il Cucciolo di “Biancaneve e i sette nani”, come avevano battezzato quel gruppo di amici che stava sempre insieme. Veniva da Bologna e Bologna è la città che gli è rimasta nel cuore, perché ancora adesso che vive a Roma lo puoi incrociare sotto le due Torri al Tennis Club Aeroporto che fa qualche partita.

Una squadra di amici

Però l’importanza della sua vita è racchiusa a Genova, in quegli anni e in quella Genova, in quella truppa di amici che vinceva le Coppe Italia e poi uno scudetto e arrivò in finale alla Coppa Campioni, qui a Wembley. Mancini alla Samp, sceglieva lui le maglie, persino il look dei suoi compagni. Hanno detto che più che un leader era un capobranco, dominato forse da antinomie inconciliabili, come i suoi idoli che erano Michael Jordan e Papa Wojtyla, personaggi così distanti fra loro. Quelle antinomie sono diventate in realtà la sua forza, il marchio di fabbrica che ha finito per travasare anche nella sua nazionale. È sempre stato un uomo all’opposizione, un bastian contrario, persino quand’era rincantucciato su una poltrona del potere, all’Inter, e lui si sentiva lo stesso Robin Hood dei tempi della Sampdoria. Come diceva Bertolt Brecht, “ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri erano occupati”.

Armonia in campo

Però, il ragazzino di Jesi, il figlio di Aldo il falegname e dell’infermiera Marianna, ha portato sempre con sé, in qualunque battaglia e su qualsiasi fronte si trovasse a combattere, il senso della bellezza, della superiorità filosofica dell’estetica. Per questo, arrivato a fare il Ct della Nazionale, non ha inseguito gli operai con la bava alla bocca che sceglieva Conte per costruire le sue muraglie e i suoi catenacci, ma solo i migliori, uomini di talento e di fantasia, quelli che non sbagliano un passaggio, perché già quand’era alla Samp andava su tutte le furie pure in allenamento se vedeva toccare male la palla. Se da giocatore riassumeva bellezza e armonia, quel modo di muoversi senza una goccia di sudore in cui nessun gesto era inutile e nessuna corsa sprecata, da tecnico ha sempre cercato una cifra stilistica superiore, che rispondesse al suo senso dell’estetica e a quello che in fondo è lui, un uomo elegante, che non alza mai la voce, che sorride appena e che tiene chiuso il cuore per non esibirlo, ma farlo battere.

Estetica superiore

Mancini, ha scritto Alessandro Bonan sul Foglio, “ha lavorato come un artista privilegiando il tocco, la maniera, con eleganza e un fare morbido”. Ha scelto giocatori di cui ha intuito prima di tutti l’estetica superiore, come Nicolò Zaniolo, convocato in nazionale quando nessuno aveva ancora visto il suo talento, e “sulla strada della bellezza e dell’imponderabile, ha voluto far giocare la sua nazionale in palleggio, con un centrocampo pieno di artisti”. Così siamo diventati i più belli.

Look sempre curato

E non c’era mai successo, anche quando ci riservavano gli onori dovuti a quelli che vincono, anche quando avevamo la nazionale più forte di tutti, con Totti, Del Piero, Inzaghi, Nesta, Cannavaro, De Rossi, Buffon, Zambrotta, ma giocavamo lo stesso arroccati nel nostro fortino a difenderci, non c’era mai successo che gli altri si inchinassero alla nostra Bellezza. Tutto questo lo dobbiamo a questo signore con il ciuffo, eletto come Ct più sexy di Euro 2020 (davanti a Luis Enrique, altro eccelso personaggio di questa storia), con il suo look sempre curato, il suo sorriso leggero, un maestro di eleganza, a 55 anni, che sfida persino la tigna dell’età. In fondo, a pensarci bene, solo lui, così english nel portamento, anche a partita appena finita, quando viene colto dalle telecamere mentre chiacchiera con i giornalisti stranieri, tenendo la giacca sulla spalla con la mano destra, solo lui, che si offende per le volgarità dei colleghi, come fece quella volta che si ribellò agli insulti di Sarri, poteva cambiare la nostra immagine, farci tornare quello che siamo davvero, quello che siamo sempre stati. Perché belli come noi non c’è nessuno, e siamo riusciti a dimostrarlo dopo tutto quello che c’è successo, anche in un campo di calcio, dopo che abbiamo contato tutti quei morti e le sirene delle ambulanze tagliavano le nostre notti, dopo tutti questi giorni di sofferenza e di solitudine. Grazie Mancio. Abbiamo vinto così. La Grande Bellezza e l’Amicizia.

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