Il nome di Luca Barbarossa è legato in modo indissolubile al Festival di Sanremo, grazie al successo del 1992 con “Portami a ballare”, canzone dedicata alla madre, e ad altri brani diventati immortali come “Via Margutta” (1986) e “L’amore rubato” (1988). In questa intervista, realizzata da Postenews poco più di un anno fa, Barbarossa ripercorre la sua carriera in occasione dei 60 anni.
Luca Barbarossa ha festeggiato i suoi 60 anni con un romanzo autobiografico dal titolo “Non perderti niente”, nel quale per la prima volta ha messo a nudo le sue luci e le sue fragilità. Parla delle sue avventure artistiche, della sua famiglia, della sua arte: a Luca Barbarossa, voce storica di “Radio 2 Social Club” e vincitore del Festival di Sanremo 1992, abbiamo chiesto cosa vuol dire scrivere al giorno d’oggi e qual è il suo rapporto con la nostra Azienda, tra lettere e uffici postali.
“Non perderti niente” è il titolo del tuo nuovo libro autobiografico. Ma è davvero possibile non perdersi niente in tempi di distanziamento e di paura come questi?
“La pandemia ha dato una accelerazione a un processo di distanziamento fisico e a un abbandono dell’esperienza fisica che già era in atto da anni ed è forse una delle controindicazioni del progresso tecnologico. Sempre più facciamo esperienze virtuali e sempre meno andiamo a confrontarci con il mondo reale. Non perderti niente, da un certo punto di vista, è l’esortazione che faccio alle nuove generazioni e ai miei figli: un augurio di tornare a considerare che la vita è una esperienza fisica”.
A 60 anni hai sentito la voglia di scrivere qualcosa di autobiografico: più per fissare il passato o più per prepararti al futuro?
“A un certo punto della vita si sente l’esigenza di condividere con gli altri, anche in modo altruistico, le cose belle ed emozionanti, intense che si sono vissute. Ho avuto una vita fortunata da questo punto di vista. E voglio raccontarla e condividerla questa fortuna, perché l’ho vista solo io e pochi intimi. Spesso non c’erano telecamere o telefonini. Quando ero in studio con Luciano Pavarotti a New York eravamo noi e pochi addetti ai lavori, a pranzo con lui eravamo solo noi due. Molte delle cose che ci accadono hanno un dietro le quinte che è interessante quanto quello che si vede della platea. I racconti della mia vita spesso si intrecciano con le canzoni che ho scritto. Le canzoni hanno un mondo dietro, scoprire questo mondo dà un senso di profondità a ogni forma d’arte».
Per Luca Barbarossa cosa significa scrivere?
“È la vita stessa, se non riesco a farlo sto male fisicamente. Ho bisogno di esprimermi, di cantare qualcosa che prima non esisteva e il giorno dopo c’è, perché la canzone l’hai sofferta e suonata, e poi è diventata melodia. È la mia essenza, se non lo faccio perdo fiducia in me stesso. Lo stesso vale per i libri: questo l’ho definito romanzo autobiografico, perché non ha la classica forma della autobiografia. È un racconto e non segue un ordine cronologico, ma un disordine emozionale. Ed è sotto forma di avventura”.
Nella canzone “Non è inutile” hai ripreso il testo di una lettera di Ettore Scola alla figlia e il tuo brano ha finanziato il sostegno alla ricerca nella fase più critica della pandemia. Che valore dai a una lettera?
“Enorme. Lo ha a livello storico: se vogliamo capire realmente chi era un personaggio importante, un viaggiatore, un artista o uno scienziato è leggendo le sue lettere che capiamo molto di più di quanto ci possano raccontare gli storici. Ne capiamo le sfumature private, intime, a volte insospettabili. Continuo a ritenere la lettera una sorta di tesoro per capire l’animo umano anche perché solo attraverso quelle possiamo dire parole che non abbiamo mai avuto modo o coraggio di rivelare. Perfino la mia ‘Portami a ballare’ è una sorta di lettera scritta a mia madre di ciò che per pudore e soggezione non le ho mai chiesto. È difficile entrare nei dettagli e nelle ombre di un rapporto come quello tra madre e figlio: in quella canzone ho sciolto un nodo e ho capito di non aver mai guardato fondamentalmente mia madre come una ragazza, una donna con la sua storia e i suoi sogni, alcuni anche infranti. È una lettera disperata di un figlio che chiede alla madre che donna fosse”.
Che luogo è o è stato per Luca Barbarossa l’Ufficio Postale?
“Ora negli Uffici Postali è tutto straorganizzato, tutti i dipendenti sono particolarmente efficienti. Ci sono servizi di tutti i tipi e l’assistenza è perfetta. Un tempo si andava lì a fare la coda: c’era un po’ una solidarietà tra clienti e capitava di fare amicizia. C’era un sentimento popolare, di quartiere, era un luogo di incontro. Oggi la gente fa meno quadrato, ma devo dire che nel caso dell’Ufficio Postale l’organizzazione ha reso tutti i servizi semplici e veloci”.
Utilizzi i servizi digitali?
“Sono ‘condannato’ alla tecnologia per il mio lavoro, soprattutto in radio dove è necessario anche un taglio giornalistico al programma. Compenso stando il più possibile lontano dai social network. Il mio Social Club nasce in tempi non sospetti ed era riferito a Buena Vista Social Club: il termine social significava l’interazione degli artisti e delle varie menti in trasmissione”.
Ti definisci un padre attento e dinamico. Come si motivano oggi i ragazzi?
“Per fortuna i ragazzi ci danno scuola anche su questo, sono loro stessi a trovare le motivazioni. Ho la fortuna di avere figli che si sono scelti le loro passioni e le hanno coltivate: uno è musicista classico, l’altro studia e fa surf da quando è bambino, la piccola fa teatro e danza moderna. Spero di aver fornito loro gli strumenti per portare sempre avanti le proprie passioni: è questo il compito di un genitore, poi sono loro a tracciare la rotta e farti scoprire cose che non conosci. L’esempio è il miglior insegnamento che si possa dare a un figlio, più delle parole”.