“Sono una donna bionda, con gli occhi verdi, alta 1,73, presbite, miope, astigmatica, ipermetrope. E ipersensibile”. Ma di tutte queste definizioni che consegnava agli altri è l’ultima che la descrive meglio. Monica Vitti è stata un talento immenso, con una tecnica fatta di versatilità e studio, una artista totale che ha riempito la nostra vita con la sua voce roca e pastosa che arrivava dall’anima. E la sua sensibilità era la parte meno nascosta di lei, quella più naturale, che la rendeva così simile alla nostra fatica di vivere. Quando morì un altro grande del nostro cinema, Marcello Mastroianni, la cercammo per intervistarla e lei ci disse in lacrime che non riusciva a raccontarci niente perché soffriva troppo, che aveva un mucchio di cose da dirci, ma non ce la faceva proprio. “Perdonatemi”, disse. Di sicuro c’era qualcosa di lei negli innumerevoli personaggi che ci ha lasciato, perché come Anna Magnani, o come Sophia Loren, ha raccontato i nostri sentimenti più profondi e universali, anche quando doveva solo far ridere, la nostra malinconia dolente, tutto quello che siamo diventati dentro la nostra storia comune.
Qualcosa più di un’attrice
“Faccio l’attrice per non morire”, disse una volta. “Quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela a continuare solo fingendo di essere un’altra e facendo ridere il più possibile. Ci sono riuscita in teatro e nel cinema. Nella vita molto meno”. È morta adesso a novant’anni, ma ci è mancata da tanto tempo, da quando una malattia degenerativa l’aveva costretta all’isolamento, amorevolmente assistita dal marito Roberto Russo. Ci è mancata perché è stata qualcosa di più di un’attrice. Monica Vitti ci è entrata dentro nella stessa maniera in cui ha conquistato i grandi registi e gli attori che hanno lavorato con lei, da Antonioni a Monicelli, da Eduardo De Filippo ad Alberto Sordi, Mastroianni, Gassman.
Quando conquistò Antonioni
Si chiamava Maria Luisa Ceciarelli, romana di Roma, da padre romano e madre bolognese, Adele Vittiglia. L’infanzia però la passò a Messina, dove suo babbo restò 8 anni come ispettore del commercio estero. La chiamavano “Setti Vistini”, sette sottane, perché aveva sempre freddo e si metteva addosso un mucchio di roba per coprirsi. Dopo il diploma all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, il suo maestro, Sergio Tofano, le consigliò di cambiare nome. E lei al tavolino di un bar si mise a provarne un po’ su un tovagliolo bianco. Vitti come la mamma, l’abbreviativo di Vittiglia, e Monica perché suonava bene. Esordì nel cinema a 23 anni, nel 1954. Ma faceva teatro soprattutto, Brecht e Shakespeare, ragazza di collegio, figlia di borghesi, che guardavano con un certo disprezzo il palcoscenico perché “corrode l’anima”, come le diceva sua madre. Però Michelangelo Antonioni la vide lì, mentre recitava Feydeau. Fu conquistato dalla sua voce e la chiamò per doppiare Dorian Gray. Poi la guardò meglio e le disse: “Lei ha una bella nuca, potrebbe far cinema”.
Musa dell’incomunicabilità
Cominciò con l’Avventura la tetralogia dell’alienazione. E con Antonioni entrò nella storia del cinema, diventando la bella, moderna musa dell’incomunicabilità, proprio lei, baciata dal dono della dialettica e dell’humour, che possedeva come nessun’altro il fuoco di spirito e la voglia di comunicare. Il successo di Cannes la consacrò per sempre. Nei film di Antonioni espresse tutta la gamma variegata e complessa dell’infelicità e l’impotenza dell’amore, “regalando a quelle inquietudini nevrotiche la sua sottile sensibilità personale”, come ha sottolineato perfettamente Maurizio Porro. Non è solo grande sullo schermo. È grande fuori, ironica, intelligente: “Le attrici bruttine devono molto a me. Sono la prima che ha sfondato la porta”. In realtà, lei possiede una bellezza fuori dai canoni che non ha bisogno di apparire. L’adorano tutti, e Monicelli le affida il ruolo buffo e vendicativo della “Ragazza con la pistola”, segnando la sua nuova carriera di attrice brillante e spiritosa, unica e irripetibile, con quella sua voce roca e pastosa. Recita con Scola e Dino Risi, diventa Ninì Tirabusciò, e calca le scene con tutti gli eroi della commedia all’italiana, diventandone l’assoluta Regina.
Niente è andato sprecato
Vince premi in serie uno dietro l’altro, 3 Nastri e 5 David, fino a un Leone d’oro alla carriera nel ‘95. Al successo di critica unisce il consenso popolare. Però non dimentica mai chi è lei in realtà. Quello che è diventata lo deve a quello che è: “Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita”. Confessa di aver versato tante lacrime, copiose e liberatrici, lacrime di sconfitta, di solitudine, di stanchezza. “Ho riso e pianto e molto”. Adesso a raccontarne la vita, resta questo alla fine, che lei è stata più grande di tutto, perché il suo talento era una cosa giusta. E niente è andato sprecato. Che sia Monica Vitti o Claudia, la protagonista dell’Avventura di Antonioni, a parlare, è ancora la sua voce che ci ammonisce, ed è così, è vero, ha ragione lei: “Devi dirmi che quando esci senza di me è come se ti mancasse una gamba. Vai pure da solo a visitare la città. Zoppicherai! Devi dirmi che hai voglia di abbracciare la mia ombra che passa sui muri!”.