Nell’ultimo disco di Sergio Cammariere, “Piano solo”, dallo stile delicato modern-jazz, tutto strumentale, c’è un brano struggente intitolato “Lettera a mia madre”. “È una canzone poetica, lirica, potrebbe avere delle frasi ma è senza parole, fa parte delle mie improvvisazioni, è la lettera del distacco, della nostalgia” racconta il musicista di Crotone. Poi mi svela quella che chiama “una piccola verità”, quando l’ha composta non pensava a sua madre, che ha perso qualche anno fa, ma a quella della sua compagna, malata di Alzheimer, “è una canzone molto intima, una canzone dell’incomunicabilità”. Invece alla sua scriveva molte lettere nei primi anni di carriera quando suonava nei locali, come al Bogart, al Paskowski di Firenze o al “mitico” Tartarughino, il night di via della Scrofa a Roma. “Era un’abitudine che avevo da adolescente, con mia madre ci scrivevamo molto quando ho lasciato la Calabria e stavo tra Firenze, Milano e Roma, ricordo anche molti rapporti epistolari con gli amici in quegli anni, con uno di loro che si era trasferito ad Amsterdam il carteggio è stato lunghissimo”.
Per conto dello zio Carlo
Ma c’è un episodio esilarante che racconta nel libro autobiografico “Libero nell’aria” (Rizzoli), perché Libero è il suo secondo nome, uno che il destino ha fatto nascere a Crotone, in via Libertà, 11A. Sergio Cammariere si riferisce a uno dei suoi primi maestri, un insegnante, lo zio Carlo, “una sorta di monaco tibetano che viveva in clausura, nella sua casa piccola e modesta”, che era un tipo solitario, “stava con la sua musica, il suo gatto, ma percepiva tutto, le mura erano sottili, così sentiva i sospiri di una vicina di casa, una anziana che ancora amoreggiava spesso e rumorosamente con un amante, mi chiese di scriverle una lettera anonima, intitolata “La vezzosa”. Una lettera che iniziava così: “Gentile Signora, la notte, anche se non c’è luna piena, la sentiamo ululare. Lei è forse una lupa mannara? Il suo lamento disturba il sonno dei ghiri che si sono risvegliati con sei mesi d’anticipo e ora soffrono d’insonnia”.
Michelle, i fan e i vicini
Sempre nel libro c’è un capitolo dedicato a Michelle, la sua compagna danzatrice, “mi ha insegnato la dolcezza delle lettere” scrive ispirato Cammariere. “Ognuna è una lettera d’amore, anche la più difficile, la più dolorosa”, e ancora “le lettere d’amore sono l’alibi della commozione, il giorno della liberazione, i manicomi vuoti, la carezza di una madre”. Poteva diventare una canzone, ammette, “ma dovevo entrare nelle rime, negli endecasillabi, nella poesia, però le lettere di Michelle esistono davvero”, confessa, “sono tante, meravigliose, ma non le ho volute pubblicare, erano molto intime, private, scriveva su una carta velina leggerissima perché erano spedite per posta aerea, dovevano pesare poco, scriveva con una calligrafia elegante e un ordine incredibile”. Alcune arrivarono a destinazione quando il loro rapporto stava finendo. “Il suo italiano era molto elementare, essendo anglosassone, inconsueto, facevano sorridere”, dice di quelle corrispondenze amorose. Ma conserva anche i messaggi dei suoi fan, “rose e biglietti con frasi stupende che arrivano in camerino prima dello spettacolo, anche a Sanremo è successo”, le chiama affettuosamente “letterine”. Una gli fu recapitata a mano da anonimo, forse un vicino insonne, sul parabrezza della sua automobile. “Abitavo a Roma in via Flaminia, suonavo fi no a fare le ore piccole, quasi senza rendermene conto”, quel messaggio lo fece sorridere, perché in fondo era affettuoso. C’era scritto: “Apprezziamo e riconosciamo la bravura dell’artista, ma le saremmo grati se potesse suonare non oltre la mezzanotte”.