La più giovane donna italiana a dirigere un quotidiano, Agnese Pini è stata inserita da Forbes nelle cento italiane di successo del 2021. Nata nel 1985 a Carrara, è la direttrice del giornale fiorentino La Nazione dal primo agosto 2019 ed è la prima donna in 160 anni di storia del quotidiano a ricoprire questo incarico. Tanti i riconoscimenti che Agnese Pini ha ottenuto nel corso della sua carriera. Tra questi vi sono tre premi giornalistici, il Guidarello (2019), il Matilde Serao (2021) e il Premio Ischia per la Carta Stampata (2021).
Quanti primati, dottoressa Pini…
“Un’esperienza meravigliosa, un grande dono che mi fa la vita. Posso dire grazie anche alla buona stella perché senza una buona dose di fortuna non sarei riuscita ad arrivare dove sono arrivata. Il nostro non è un Paese ancora ben disposto a questo tipo di soluzioni per la leadership, e non tanto perché io sia donna ma perché sono giovane. Poi dobbiamo intenderci su cosa significa essere giovani: ho 37 anni, non credo sia un’età da kindergarten ma in Italia si è ancora un caso quando si hanno responsabilità sotto i quarant’anni”.
I suoi colleghi come hanno accolto l’arrivo di un capo così giovane?
“La redazione ha accolto la mia nomina con estrema naturalezza, esattamente nel modo in cui l’ho vissuta io. C’è reciprocità, il modo in cui un capo si pone è quello in cui i colleghi lo percepiscono. Ovviamente all’inizio ero molto spaventata ma non mi sono posta né il tema del genere né quello dell’età. C’erano tante cose da fare e il senso del dovere veniva prima del timore. D’altra parte, io lavoravo già nel giornale con altri ruoli e i colleghi mi conoscevano bene così come io conoscevo loro, c’era una base di fiducia che si rinnovava anche se in ruoli diversi. Una fiducia pregressa che mi ha aiutato ad essere naturale anche nella nuova veste”.
Sono passati quasi tre anni dalla sua nomina. Come stanno andando le cose? Lei che voto si dà?
“Quando ci si danno i voti da soli occorre darli bassi, non per modestia ma per senso di responsabilità verso gli altri. Quando ci si auto-giudica occorre sempre essere consapevoli che ciò che si sta facendo di buono si è tenuti a farlo”.
Per i giornali non è una stagione felice. Lettori e pubblicità migrano verso il web.
“Il momento è complicatissimo. Ma è nei momenti più complicati che occorre darsi da fare per cambiare davvero le cose. Hai due scelte: o ti chiami fuori e giochi a fare il critico, tentazione facile ma improduttiva, perché non incide sulla realtà: oppure decidi di “sporcarti le mani”, di stare dentro le cose per provare a cambiarle”.
Tra i riconoscimenti che lei ha ricevuto c’è quello che le hanno assegnato le Poste, il Premio Serao.
“Ne sono stata molto felice e molto orgogliosa. Matilde Serao è una figura straordinaria per chi fa il nostro mestiere, una icona troppo poco celebrata per quanto è stata importante. Era una figura nota non solo a livello nazionale, una figura europea troppo poco raccontata e celebrata. Ricevere un premio che porta il suo nome è stato davvero bello. Scelgo questo aggettivo semplice perché è il più vero: è stato davvero bello. Mi hanno dato altri riconoscimenti ma il Premio Serao mi ha commosso, sia quando lo hanno annunciato sia quando sono andata a ritirarlo”.
Forse stiamo per lasciarci alle spalle la lunga stagione della pandemia. Lei che bilancio fa? E che idea si è fatta del ruolo svolto da un’azienda come Poste?
“Le Poste e i giornali hanno tanto in comune. Sono entrambi mestieri legati al comunicare, che è il primo istinto dell’essere umano. Mettersi e tenersi in contatto: anche per i giornali questa è la missione. Lo abbiamo visto con chiarezza nella stagione della pandemia. Durante il lockdown quando si era reclusi, ai domiciliari, l’informazione ha svolto un ruolo fondamentale, più di quanto lo avesse mai fatto prima. Questo è stato, mi pare, anche il ruolo delle Poste. Il senso dello stare vicini nella lontananza. Ma c’è un altro aspetto che abbiamo in comune: le Poste, come i giornali, stanno vivendo – direi quasi in parallelo – la grande trasformazione tecnologica. Cambiamo pelle. Resta ferma la qualità della comunicazione ma cambiano le modalità, si perfezionano nuovi strumenti, si esplorano nuovi territori. Questo è ciò che noi e voi stiamo sperimentando in parallelo. Ma in parallelo si riscopre anche la necessità di fare relazione, di fare comunità, caratteristica che le Poste continuano ad avere in una maniera assolutamente peculiare. Aggiungo che un giornale come il mio ha un legame molto stretto con le comunità a cui si rivolge, parla la loro lingua, si occupa dei loro problemi, ha una diffusione capillare e radicata. Sono tratti che si ritrovano nel servizio postale. La nostra forza sta nella capacità di guardare al piccolo anche nel mondo globalizzato. Di stare vicini a quella strada, quel negozio, a quell’anziano o a quel giovane, in quella determinata frazione, comune, paese. Il covid è stato vissuto molto male nelle metropoli ed è stato vissuto meglio nei piccoli comuni. Mentre eravamo chiusi in casa abbiamo riscoperto il valore di un vicino, il valore del panettiere a cui possiamo dare del tu a cui possiamo fare una telefonata. Il valore di un’amica che vive nella strada accanto e che magari è capace di fare le punture. Qualcosa che si era perso e che nelle città si è perso inevitabilmente di più. I piccoli centri hanno saputo ritrovare il senso di comunità e l’hanno saputo fare anche grazie a servizi essenziali come i giornali e come le Poste. Con il panettiere e la farmacia, hanno rafforzato il senso di comunità, una dimensione necessaria per gli esseri umani. Questa è una delle poche cose buone che il covid ci ha lasciato in eredità, non dimentichiamola”.
In Italia è ancora irrisolta la cosiddetta questione di genere. Le donne sono ancora sotto-rappresentate e sotto-occupate. Come se ne esce?
“In Italia le donne hanno ancora un ruolo marginale e non mi riferisco alle posizioni apicali, dove pure sono rare, penso soprattutto alla base. Il nostro Paese ha un’occupazione femminile al di sotto di qualsiasi media europea, con divari che arrivano a percentuali disastrose come quelle registrate al sud. Noi siamo un Paese del G7 e non raggiungiamo il 49% per l’occupazione femminile! È un tema enorme che va affrontato con politiche radicali. Il primo passo è la consapevolezza. Poi serve la volontà politica. Ci sono ostacoli culturali, educativi, familiari che possono essere superati se c’è la volontà di farlo. E posiamo farlo anche senza ricorrere al PNRR, abbiamo già gli strumenti. Occorre però che si assuma il dato attuale come inaccettabile”. (Isabella Liberatori)