Lettere nella storia: Petrarca e la vanità dell’esistenza

Quanti hanno l’esperienza di aver scritto una lettera frutto di 20 anni di lavoro e neppure completata? Francesco Petrarca, tra i maggiori poeti italiani, si è sobbarcato a una tale fatica scrivendo in latino la lettera indirizzata ai posteri (Posteritati). Tra le tante scritte, questa è la sua autobiografia per quanto incompleta poiché si ferma all’età di un quasi cinquantenne che allora veniva considerata di avanzata maturità. Infatti riassume in forma lapidaria l’intera sua vita: “Adolescentia me fefellit, iuventa corripuit, senecta autem correxit” che tradotta in forma altrettanto lapidaria suona così: “L’adolescenza mi illuse, la gioventù mi corruppe, la vecchiaia invece mi ha corretto”. Nonostante la delusione, evidente appare l’impegno del poeta a rendere memorabile la propria vita alle future generazioni.

La centralità di Laura

Ma quella certa enfasi nel ricordare una vita piuttosto ordinaria non riesce a sfumare il senso di malinconia e disillusione sulla propria esistenza e in genere sulla vita umana sulla terra. “Nulla tra i mortali dura – constata il Petrarca – e se ti è toccata una dolcezza, presto ti finisce nell’amaro”. Un esempio di questa filosofia disincantata emerge nel modo burocratico e asciutto con cui viene liquidata la figura di Laura, donna ideale del poeta analoga a quello che per Dante fu Beatrice. Figure femminili indimenticabili nella letteratura mondiale. La centralità di Laura si trova invece nella maggiore opera del poeta in lingua volgare. Il “Canzoniere” capolavoro in lingua volgare, viene addirittura diviso dallo stesso poeta in Rime in vita e in morte di Laura, conosciuta in piena giovinezza e morta nella peste del 1348. Vibrante di musicalità il ricordo di lei nel primo incontro: 

“Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
l’aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse”.

La natura funge da cornice per esaltare la bellezza della donna che a sua volta tende a nobilitarla con la sua presenza. Colpisce, perciò, il singolare distacco con cui nella lettera pensata come un testamento di vita di un poeta incoronato di alloro, viene ricordata Laura. Figura quasi evaporata di un’età felice ma da dimenticare. “Mi travagliò, quand’ero molto giovane, un amore fortissimo; ma fu il solo, e fu puro; e più a lungo ne sarei stato travagliato se la morte, crudele ma provvidenziale, non avesse spento definitivamente quella fiamma quand’ormai era languente. Vorrei – scrive ai posteri Petrarca – davvero poter dire d’essere assolutamente senza libidine; ma se lo dicessi mentirei. Posso dir questo con certezza: d’aver sempre in cuor mio esecrato quella bassezza, quantunque vi fossi spinto dai calori dell’età e del temperamento. Ma tosto che fui presso ai quarant’anni, quando ancora avevo parecchia sensibilità e parecchie energie, ripudiai siffattamente non soltanto quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come se mai avessi visto una donna. E questa la pongo tra le mie principali felicità, ringraziando il Signore d’avermi liberato, ancor sano e vigoroso, da una servitù così bassa e per me sempre odiosa”.

“Vanità delle vanità”

In altro passo della lettera Petrarca scrive: “L’esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vanità…”.
Lo stemperarsi dell’amore prima travolgente e onnipresente per Laura rinvia al monito di Qohelet: “Vanità delle vanità: tutto è vanità”. Il velo della precarietà che avvolge la Lettera ai Posteri rischia di travolgere anche oggi di ombre l’orizzonte umano rendendo vana la speranza in Colui che nell’ultimo libro delle Scritture sacre, rovesciando lo sperdimento del Qohelet, afferma: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Un andare oltre è possibile. Esistere non è vano.