La nostra grande bellezza: un viaggio tra i Palazzi storici di Poste Italiane alla scoperta dei tesori artistici e architettonici. Un itinerario sorprendente che coinvolge tutta l’Italia e aiuta a ripercorrere la storia del servizio postale.
Tra i portici, gli scaloni e gli affreschi del maestoso Palazzo delle Poste di Via Alfieri a Torino si intrecciano le vite di più generazioni, da sempre “rapite” dall’imponenza e dagli arredi di una sede che conserva i simboli e la memoria della città. La testimonianza di chi la frequenta ogni giorno da 40 anni: “Una volta i turni delle telescriventi finivano alle 7 del mattino, stavamo sempre insieme”. Ad alzar la testa salendo gli scalini rotondi di pietra, Pasquale si sentì così piccolo e felice la prima volta che varcò quest’ingresso, sotto le cariatidi di Rubino che lo scrutavano dall’alto e in faccia al monumento dei caduti che incombeva maestoso, avvolto nell’ombra davanti a lui, in mezzo all’atrio. Pasquale è il più anziano dipendente di questo storico Palazzo delle Poste, tirato su nel cuore di Torino, via Alfieri 10, nel 1911. Classe 1956, fu assunto nel 1978, che aveva 22 anni. La vita qui dentro, che è sfuggita da allora, portando via tutto il tempo che l’ha rincorsa, gli ha lasciato anche un titolo e un incarico, perché Ferraro oggi è “il Referente del Palazzo”, una figura creata nel 2010 non solo per conservarne la memoria, ma soprattutto per tenere i rapporti con le ditte durante i lavori di ristrutturazione.
Quel primo giorno di lavoro
Francesco è molto più pratico. Faceva un caldo cane quel giorno di luglio del 1983, quando varcò la soglia di via Alfieri al numero 10, per il suo primo giorno di lavoro, e le spesse mura conservavano miracolosamente un’ombra provvidenziale. Oggi lui è il referente Risorse Umane per le relazioni sindacali in Piemonte, e dice che “la cosa che mi è rimasta impressa è proprio il ricordo di questo Palazzo, com’era allora. C’erano i termosifoni di ghisa, le porte con i vetri all’interno e le maniglie dorate. La maestosità dell’ingresso era un po’ trasandata, come se fosse meno lucida e le mura portassero qualche screzio. Ma tutto era così esagerato, così imponente. I soffitti erano alti 7 metri”. Nella grandezza del luogo, il mondo era tutto diverso, e anche il lavoro e i rapporti interni con i superiori erano diversi. Ricorda Francesco che per parlare con il capo del personale “dovevi passare tramite la segreteria e se tutto andava bene, ti davano l’indicazione di un orario, tu salivi al primo piano e per entrare dovevi suonare un cicalino, dove comparivano tre voci: una in verde diceva “entrare”; un’altra in nero “attendere” e la terza, sempre in nero, “non riceve””.
Dietro la porta
Quando Francesco suonava il cicalino e luccicava la voce “entrare”, apriva lentamente la porta prima di chiedere permesso mettendo il piede dentro una stanza enorme con le vetrate affacciate sul cortile e uno scrittoio e il capo del personale, un signore alto un metro e 65, che diventavano ancora più minuscoli nella vastità dell’ufficio, davanti al quale ci accompagna adesso Mario, referente della funzione Immobiliare Nord Ovest. Le porte sono già diverse, senza i vetri smerigliati e le maniglie d’oro o argentate. Cerchiamo il cicalino, ma non lo troviamo più. Di fronte, lungo il corridoio su un tavolino, è appoggiata una Telescrivente Olivetti T2 del 1949 e un’altra, qualche metro più in là, su un comodino dell’epoca catalogato “Direzione Provinciale Poste Torino numero 0001200”. È il passato che conserva la grandezza del futuro. “Oggi questa stanza si chiama Murales ed è adibita a riunioni”, come certifica Pasquale, il referente del Palazzo.
Le macchine di allora e… le pantofole
Uscivi da qui e percorrevi il corridoio fino alle scale, che sono enormi anche loro – e anche adesso – e salivi al secondo piano, dove c’erano le telescriventi. Nel mondo del secolo scorso, senza le mail, i computer e le diavolerie dei cellulari, questo era il luogo più simbolico del Palazzo delle Poste di Torino. Oggi ci sono solo uffici. Ma un tempo c’era uno stanzone, con tre scrittoi belli lunghi dove la gente vergava i telegrammi da spedire. Quasi tutte le impiegate vestivano dei grembiuli di un azzurro molto intenso, che indossavano per non rovinare i loro abiti. Pochi uomini avevano il grembiule, ricorda ancora Ferraro, ma mettevano dei manicotti alle braccia per non sporcarsi, e ci vengono in mente gli impiegati di Gogol o i travet della Fiat, e gli operai in bicicletta che attraversavano le nebbie delle strade con il baracchino che pendeva dal manubrio, fotografie di un mondo che è appartenuto alla nostra memoria e che non esiste più. Francesco invece rimase colpito, cominciando il suo lavoro alle Poste, quando vide i commessi che si muovevano in pantofole. Aveva una dimensione strana questo Palazzo a due facce – eretto in stile eclettico neobarocco nell’anno della Grande Esposizione che si tenne a Torino in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia – che ai fasti del passato e alle gerarchie ottocentesche che lo rappresentavano, sommava la familiarità di altre epoche e di altre società. Quelle pantofole davano l’idea di qualcuno che lavorava in fondo come se fosse a casa sua. Pasquale ricorda che allora dentro al Palazzo ci si stava 24 ore su 24, perché c’erano i turni notturni delle telescriventi, che finivano alle 7 del mattino. “Ognuno si portava qualcosa da mangiare e da offrire agli altri e nella pausa pranzo ci si metteva tutti insieme. Si cantava, si scherzava e poi si riprendeva a lavorare. Mi viene persino un po’ di timore a raccontarlo, perché oggi una cosa del genere è assolutamente impensabile”.
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