Roma, 10 giu – Il ruolo dei codici di autoregolamentazione, o “stewardship”, nel guidare le scelte di voto dei grandi investitori istituzionali nelle società in cui hanno investito tramite i loro portafogli. E’ stato il tema al centro di in convegno organizzato oggi dalla Consob, assieme all’Università Bocconi e all’Università Europea di Roma.
Da un lato le pressioni dei legislatori comunitari, con la direttiva europea sui diritti degli azionisti che vorrebbe spingere gli investitori istituzionali a monitorare le scelte dei Cda delle società su cui hanno investito, e a esercitare attivamente i propri diritti di soci. Partendo dall’assunto che all’opposto proprio il disinteresse dei soci sarebbe stato uno dei fattori all’origine della crisi finanziaria del 2007-2008, favorito comportamenti azzardati dei manager.
A illustrare anche queste possibilità è intervenuta Claudia Chapman, corporate governance policy advisor del Financial Reporting Council della Gran Bretagna, primo Paese ad aver elaborato codici di stewardship.
Ma il tema è dibattuto tra gli addetti ai lavori, come ha rimarcato anche Jeffrey Gordon, professore della Columbia University. Spesso fondi pensione e altri investitori istituzionali hanno incentivi scarsi o nulli a svolgere un ruolo da investitori attivisti.
Per non parlare dei fondi chiamati “passivi”, che si avvalgono di una strategia basata sul riprodurre esattamente la composizione degli indici di mercato.
Secondo Fabio Galli, di Assogestioni, la possibilità di trovare modalità di coordinamento da parte di investitori, magari per frenare scelte degli amministratori ritenute inadeguate, presuppongono l’esistenza di un “framework” tramite cui confrontarsi.
Il dibattito partiva da un quaderno giuridico della Consob dello scorso gennaio, che giungeva alla conclusione che esiste anche una funzione “segnaletica” nell’adesione a un codice di stewardship: sull’impegno con il quale l’investitore intende coltivare una prospettiva di creazione sostenibile di valore nel lungo periodo.